Elezioni in Francia, oggi, e in Gran Bretagna, l’8 giugno: nel momento peggiore per le sinistre in entrambi i paesi.

L’attentato di giovedì sera a Parigi moltiplicherà le possibilità di un grande risultato per Marine Le Pen, la cui campagna sembrava fin qui sotto tono.

La consultazione anticipata voluta da Theresa May coglie i laburisti divisi e incerti.

Le previsioni sono di una larga vittoria dei conservatori. La crisi viene da lontano. Il candidato socialista alle presidenziali Benoît Hamon eredita il bilancio della presidenza Hollande, un quinquennio talmente catastrofico da indurre il presidente a non ricandidarsi e il suo delfino Manuel Valls a perdere malamente nelle primarie del partito. Un partito, del resto, che sembra essersi sciolto nell’acido perché lo stesso Valls ha annunciato che non voterà per Hamon ma per il centrista Emmanuel Macron.

Jeremy Corbyn, la speranza della sinistra laburista inglese che lo ha fin qui difeso contro venti e maree, paga l’impossibilità di governare un partito dove tre quarti del gruppo parlamentare rimane fedele al neoliberismo colonialista di Tony Blair e complotta per sostituirlo ad ogni costo.

Va detto, però, che l’energico deputato di Islington catapultato alla guida del partito dopo la sconfitta elettorale del 2015 si è mostrato più a suo agio nel motivare i militanti che non nell’articolare un programma politico innovativo.

Frenato dall’ostruzionismo dei deputati e incerto sull’uscita dall’Ue, Corbyn sembra balbettare, incapace di offrire una prospettiva chiara.

In entrambi i casi, le difficoltà sono ingigantite da fattori imprevedibili come gli attentati, o il referendum sulla Brexit, ma palesemente i leader socialisti e laburisti non sono all’altezza della situazione. Non è colpa loro: sono i 40 anni di neoliberismo che hanno destrutturato i sistemi politici delle democrazie industriali e hanno infilato in un tritacarne i partiti socialdemocratici o laburisti. Basti pensare alla crisi verticale dei democratici americani, ben più larga della semplice sconfitta di Hillary Clinton: il partito è in minoranza alla Camera, al Senato, nella Corte suprema e nelle assemblee di 33 dei 50 Stati.

Il motivo per cui i socialisti francesi si avviano alla sorte di quelli greci, che dopo aver governato per decenni il paese hanno ottenuto il 6,3% dei voti alle ultime elezioni, è che hanno rinnegato tutte le (imprudenti) promesse elettorali fatte nel 2012.

Hollande si era impegnato a tassare con un’aliquota del 70% gli alti redditi, aveva promesso di agire energicamente contro la disoccupazione e sembrava volere una presidenza «normale» dopo la frenesia di Sarkozy (si ricordi la disastrosa avventura in Libia).

Invece, ha dimenticato l’idea della supertassa, ha mostrato la consueta subordinazione all’austerità Made in Germany, ha riproposto le fallimentari ricette basate sulla flessibilità del lavoro e ha mantenuto le abitudini neocoloniali in Africa.

Corbyn, eletto con un forte appoggio dei sindacati e il 60% dei voti del congresso laburista, avrebbe avuto l’occasione per mostrare un’alternativa radicale alla disastrosa gestione del paese sotto il conservatore David Cameron.

Purtroppo, la storica ambivalenza del Labour verso l’Europa (fortemente contrario fino agli anni Settanta, poi assolutamente favorevole) lo ha paralizzato: nella campagna del referendum sulla Brexit i laburisti si sono espressi timidamente a favore del Remain, cercando di non scontentare troppo il popolo del Leave.

Non ha osato prendere una posizione impopolare ma forte a favore dell’Unione, come sta facendo oggi Macron in Francia, né ha avuto il coraggio intellettuale di definire Bruxelles per quello che è: la macchina da guerra del neoliberismo, il calice avvelenato che ha portato all’agonia delle democrazie europee.

Il risultato è quello di un partito che dà l’impressione di essere a encefalogramma piatto, che si avvia – salvo sorprese – a una sconfitta storica nel voto di giugno.

In Francia, nelle ultime settimane c’era un fenomeno in controtendenza: il successo della candidatura di Jean-Luc Mélenchon, un indipendente sostenuto da un arcipelago di gruppi di sinistra, dato fino all’altro ieri in rapida ascesa nei sondaggi, che gli attribuivano il 19% delle intenzioni di voto.

Una performance che gli permetteva di sperare di sorpassare Marine Le Pen o Emmanuel Macron e accedere al ballottaggio per la presidenza. Dopo la sparatoria sugli Champs-Elysées il risultato più probabile è una concentrazione dei suffragi sui due candidati favoriti, Macron e Le Pen.

Peccato che Macron sia, nella definizione del sociologo tedesco Wolfgang Streeck su Le Monde, una semplice «marionetta dell’alta finanza» condannato a ripetere – se sarà eletto – le fallimentari politiche di Hollande e Valls.