Per Berlusconi è stata una Waterloo, ma il regista della sconfitta non è stato il generalissimo. O almeno non solo lui. Nella notte degli urli e degli stracci in volo, delle dimissioni minacciate, delle porte sbattute, del garbato invito un tempo adoperato da Grillo e stavolta rivolto al Cavaliere in persona da uno dei suoi luogotenenti, le divisioni e le manovre interne allo stato maggiore forzista hanno pesato almeno quanto gli sbagli del capo. Forse di più.

LO PSICODRAMMA inizia quando, venerdì sera, il consiglio di guerra forzista si riunisce a palazzo Grazioli. Le agenzie hanno già diffuso un comunicato che non lascia margini alla diplomazia, quello che accusa Salvini di intelligenza col nemico a cinque stelle. E’ un errore clamoroso: messe così le cose dovrà per forza finire con un vincitore e un vinto. Ma Salvini ha in mano una pistola carica, Berlusconi no. Il leghista può minacciare un governo con M5S che non sarebbe certo amichevole con l’azienda, che resta sempre il primo degli interessi di Berlusconi. Il leader azzurro non ha armi, neppure l’asse con un Pd di cui Renzi continua a essere il padrone. E la strategia su cui punta Renzi non prevede alleanze di sorta. Quel comunicato è stato attribuito a Berlusconi. Ne rispecchiava in effetti l’umore furibondo, non lo stile abituale. Quello ricorda più le intemperanze di Brunetta, e in effetti la firma in calce al proclama della disfatta non è quella del leader ma un più generico «Forza Italia».

COMUNQUE sia gli alti ufficiali accorrono convinti di trovare un kamikaze pronto a tutto. Vengono invece accolti da un Berlusconi pragmatico e realistico. Espone un concetto chiaro: Salvini s’impunta, è pronto a rompere, ergo è inevitabile cambiare cavallo, sacrificare Romani. Non la prende bene nessuno, e Romani meno di tutti. Volano parole grosse. I decibel s’impennano. Letta capisce al volo qual è la vera posta in gioco e prova a controbattere: «Pensi davvero che la Carfagna ministra delle Pari opportunità sarebbe uno scudo per l’azienda?». Tenta di trovare una via alternativa con un’inutile telefonata a Lotti. Niente da fare. Berlusconi alla guerra totale non vuole arrivare ed è più lungimirante dei suoi ufficiali.

PERÒ BISOGNA salvare almeno l’onore. Se si sacrifica il tutt’altro che rabbonito Romani bisogna chiedere in cambio una testa pentastellata. Veto per veto. L’alta esigenza viene comunicata a Salvini, che s’incarica della faccenda. Chiama per la centesima volta in giornata Di Maio e nasce così la candidatura notturna di Fraccaro, messo in campo apposta per essere poi «sacrificato» dopo l’annunciato e atteso veto forzista.

AL MATTINO, però, la rissa al vertice di Fi riprende, più incandescente che mai. Berlusconi propone di eleggere Anna Maria Bernini. In realtà è sempre stata lei, almeno in apparenza, la sua candidata preferita. Era stato lui a metterla in campo per primo, esattamente una settimana fa, ed è ancora lui a proporre il suo nome. Brunetta e Romani insorgono, urlano, mettono sul tavolo le dimissioni, abbandonano il vertice. «Fare quel nome significa riconoscere a Salvini il potere di decidere per noi. Non ci possiamo far imporre la candidatura». Forse non apprezzano il nome proposto dal capo. Più probabilmente sperano ancora di far saltare l’accordo. Di certo questo è l’obiettivo di Letta, che ci riprova: «Teniamo duro su Giorgetti alla Camera». Berlusconi non si smuove. Troppo pericoloso. Ghedini coglie l’occasione e mette sul tavolo la candidatura alternativa di cui in realtà si parlava già da giorni, quella della Casellati, che è la forzista più vicina a lui che si possa immaginare. Eliminata la vicepresidente dei senatori azzurri e candidata la ghediniana non resta che avviare il minuetto sulla candidatura M5S alla Camera: il veto su Fraccaro a cui fa seguito immediatamente il «cedimento» di Di Maio.

La faccenda si chiude così, nel peggiore dei modi possibili. Romani, avvelenato con Berlusconi, detta alle agenzie un commento perfido. Ringrazia Berlusconi per aver non solo proposto la sua candidatura, ma per aver «insistito» e per averlo alla fine «convinto». La Bernini non è di umore migliore. Il sospetto di essere stata usata da tutti, anche da Berlusconi, per arrivare proprio alla Casellati, più gradita non solo a Ghedini ma anche alla Lega, è inevitabile. Decine di deputati disobbediscono all’ordine di scuderia e non votano per Fico a Montecitorio.
E’ in queste condizioni che l’esercito di Arcore arriva alla battaglia decisiva. Quella per il governo.