Che cosa fa di un luogo un luogo letterario? Il fatto di comparire tante volte in racconti di finzione (New York, Parigi, Vienna, San Pietroburgo…); il fatto di esistere solo in racconti di finzione (Utopia, Paperopoli, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius…); il fatto di avere una esistenza bicipite, un po’ nella realtà un po’ nella finzione (Cabourg/Balbec, Illiers/Combray…); il fatto, infine, di essere collegato per uno o più fili alla letteratura, in modo a volte insospettabile perché appartiene a una storia minore, che mai avremmo immaginato poter approdare, sia pure di sfuggita, a una raccolta di luoghi letterari.

Come potete immaginare, Nizza Monferrato, il luogo che ho scelto, rientra nella quarta categoria, quella spuria e un po’ abusiva, sebbene, come cercherò di dimostrare, abbia buoni motivi per riallacciarsi alle altre tre. Prova della bontà della teoria di Leibniz secondo cui non c’è disposizione casuale di punti su una superficie di cui non si possa trovare una ragione.

Incomincio dal fondo, ossia dalla ragione spuria. Vicino a Nizza Monferrato i miei nonni avevano un piccolo possedimento, lì è nata ed è morta mia madre, ed esiste ancora una casa di cui al momento sono l’unico e sporadico abitatore, dopo averci passato intere estati da bambino e da ragazzo con i nonni, prima leggendo Salgari, poi Simenon, poi Proust, e alla fine l’Abbagnano, per gli esami di storia della filosofia (stavo leggendo di Rabano Mauro e di Pascasio Radberto quando, sopraffatto dalla noia, accesi il televisore ed ebbi l’annuncio del rapimento di Moro, 16 marzo 1978). Questo è indubbiamente un luogo letterario, ma nel senso vago di «luogo della memoria e degli affetti», e soprattutto lo è solo per me.

Un luogo bicipite
Diviene però un luogo letterario del primo tipo o di prima classe, come New York o San Pietroburgo, se si considera che è descritto, anche se non esplicitamente menzionato, nel Pendolo di Foucault di Eco. La collina così bella su cui si chiude il romanzo è a Nizza Monferrato, la storia della tromba suonata per celebrare il partigiano morto, tutto questo ha luogo a Nizza Monferrato, dove Eco era sfollato insieme alla madre e alla sorella durante la seconda guerra mondiale. Mia madre, sua coetanea, ci aveva giocato da bambina, e quando il suo nome incominciò a leggersi sui giornali mi disse che si ricordava che aveva i capelli nerissimi, e che sua sorella si chiamava Emilietta.

Poche cose, come vedete, ma sono i ricordi di una dodicenne. Si consideri poi che proprio a quei giochi infantili (penso non con mia madre, perché si trattava di ludi marziali) Eco fa riferimento in un pezzo di Diario Minimo, una lettera scritta al figlio Stefano in cui gli dice che non proverebbe alcun imbarazzo a regalargli per natale delle armi giocattolo. Lui, Umberto Eco, e in un’epoca in cui si usavano soprattutto le armi vere, ci aveva giocato in epici combattimenti contro la «Banda dello Stradino», immagino qualcosa come l’orto botanico di Budapest, solo che lo stradino è un luogo attestato a Nizza (oltre che in tantissimi altri posti, ma quello è lo stradino di Nizza).

C’è però un senso in cui Nizza è anche un luogo letterario del secondo tipo, quello dell’entità immaginaria, come appunto Paperopoli. Si tratta di «Nizza Nosferatu», geniale conio linguistico di Gianni Vattimo e del suo compagno Giampiero Cavaglià che per qualche anno, negli Ottanta del secolo scorso, affittavano una casa nei dintorni, ad Agliano, e venivano a Nizza per le provviste. Trovavano che non fosse granché bella (in effetti, non lo è troppo, anche se negli anni un po’ si è imbellita) e che ricordasse una città del nord della Grecia. Immaginare greci e vampiri nel cuore del Monferrato sorprende un po’, ma prima di giudicare sull’impertinenza del richiamo chiedo ancora un poco di pazienza.

Veniamo al terzo senso, quello del luogo letterario bicipite. «Nizza» è prima di tutto una città in Francia, e la sua versione secondaria è quella monferrina (detta con dispregio «Nizza della paglia»). Ora, si dà il caso che la madre di Jacques Derrida abitasse a Nizza (in Francia) proprio come la mia a Nizza (in Monferrato): ci siamo sorpresi di questa coincidenza, che attribuiva la stessa proprietà a due città diverse (e quanto!). Fu naturale e giusto che quando a Torino, nel 1998, conferimmo a Derrida l’honoris causa in filosofia finissimo i festeggiamenti a Nizza (Monferrato), con una partita di calcio tra Derrida e mio figlio allora di 9 anni – come sapete, Derrida era stato in gioventù un calciatore semiprofessionista, e se ne vedevano le tracce.

Queste cose, beninteso, interessano solo a me, e la piccola fauna di filosofi con cui cerco di popolare Nizza potrebbe essere sostituita da una piccola fauna di cantanti se il racconto lo facesse mio fratello, a lungo giornalista di musica pop, o magari di slavisti, se il narratore fosse Gian Piero Piretto, studioso di Unione Sovietica e con trascorsi nicesi simili. Ma c’è qualcosa che forse può far uscire dalla banalità della memoria spicciola per toccare qualcosa di più letterario perché, in effetti, più storico.

Nizza Nosferatu, dicevamo. Cittadina piemontese, produzione di Cortese e Barbera, zona doc del cardo gobbo, tante rivendite di farinata. Con tutta la buona volontà, è difficile, una volta che non si ricorra allo schermo della memoria intima, nobilitare il posto. Eppure, a sorpresa, una mossa è possibile, e mi gioco quest’ultima carta sperando che a partire di qui si possa procedere a una trasvalutazione letteraria del luogo. Anni fa, durante una festa paesana con gonfaloni e bandiere esposte, pensai che ci fosse un po’ di megalomania nel fatto che i colori fossero l’oro e la porpora, cioè quelli imperiali. E a un certo punto vidi la bandiera della flotta militare bizantina. Vi rendete conto?

Un quadrato di porpora con una croce d’oro che la divide in quattro campi, in ognuno dei quali c’è una Beta, che sta, immagino, per «basileus», imperatore. Difficilmente mi riuscirebbe di trovare due entità così antitetiche e fuori posto, reciprocamente, quanto Costantinopoli e Nizza Monferrato. Eppure stavano insieme, e se non è letteratura questo ci si chiede che cosa mai possa esserlo.

Sorprese di una sagra
Il motivo, del resto, basta rifletterci un poco, è chiaro. L’ultima dinastia regnante a Costantinopoli, i Paleologi, si erano imparentati con i marchesi del Monferrato. Più precisamente, il titolo lo ereditò Teodoro I, figlio di Andronico II Paleologo e Violante degli Aleramici. Poi sappiamo come andò a finire. Il 29 maggio 1453 Costantino XI Paleologo morì lottando contro il Sultano Maometto II e fu la fine dell’impero romano d’Oriente; un altro 29 maggio, del 1460, Tommaso Paleologo cedette ai Turchi la Morea (cioè il Peloponneso) di cui era despota, e che a Mistrà, piccola e arroccata sulle montagne che sovrastano Sparta, era stata il più vivo centro culturale greco degli ultimi secoli. Ma fu solo nel 1566, con la morte di Margherita Paleologa, che il Marchesato di Monferrato passò di mano, finendo ai Gonzaga.

Sappiamo che i Balcani pullularono e pullulano di veri e falsi pretendenti al trono di Bisanzio; sappiamo anche che Totò, nato nel rione Sanità a Napoli, ricevette dal marchese Francesco Gagliardi Foccas, che lo adottò, un complicatissimo titolo lungo cinque righe, che ne faceva un pretendente all’Impero Romano (non però come discendente dei Paleologi, ma dei Comneni, la dinastia precedente). Se vale il principio che ogni discendente di un imperatore romano può aspirare al trono di Costantinopoli, poco distante da Nizza, ad Alba, ci sarà forse qualche pronipote di Publio Elvio Pertinace, che fu imperatore per tre mesi scarsi, nel 193. Badate bene, non è una strategia contorta e perdente, da parte mia, per farmi avanti insidiando Erdogan. È solo per riflettere su questa variante della teoria dei sei gradi di separazione per cui, nel pieno di una sagra della farinata e della Barbera, emerge Bisanzio, il più inaspettato degli ospiti in un luogo in cui (come cantava Paolo Conte) già Genova appare remota, esotica e un po’ tremenda.