Alla fine del 2013 i disoccupati italiani potrebbero arrivare a 3 milioni e 500 mila, 400 mila in più dei 3 milioni e 100 mila censiti all’inizio dell’estate. A giugno il tasso degli occupati – 22,5 milioni – aveva già raggiunto il valore più basso dall’inizio del nuovo millennio e il tasso di disoccupazione era balzato al 12,1%. i soggetti più colpiti sono i giovani disoccupati tra i 15 e i 24 anni (39,1%) e le donne (al 12,9%). Dicembre può essere il mese in cui tutti i record negativi dei senza lavoro rischiano di essere battuti.

La stima è della Confederazione nazionale dell’artigianato (Cna) ed è stata realizzata in base ad un’ipotesi: nei primi sei mesi dell’anno sono state autorizzate 548 milioni di Cassa integrazione, con un aumento del 5% rispetto allo stesso periodo del 2012, il livello più alto dal 2009. Qualora venissero utilizzate per intero, lasciando i lavoratori senza alcuna possibilità di percepire un altro sussidio senza avere nel frattempo trovato una nuova occupazione, la disoccupazione aumeterebbe di 332 mila unità.

L’analisi della Cna si è concentrata sul lavoro dipendente privato che ha diritto alla cassa integrazione in caso di crisi aziendale ed esclude tutte le altre categorie del lavoro autonomo, precario o intermittente che non hanno accesso a questo istituto di tutela, né a quella del reddito minimo di base che del resto non esiste nel nostro paese. Se così fosse le cifre sarebbero senz’altro più alte e il record della disoccupazione tra i dipendenti assumerebbe il profilo realistico di una pandemia che ha investito tutte le tipologie lavorative. Meglio dunque tenere bassi i numeri e non allarmare un’opinione pubblica che, da almeno un trimestre, viene ammonita dal rischio di «autunno caldo» e di conflitto sociale dettato dall’emergenza della disoccupazione di massa.

La Cna ha tradotto in cifre le conseguenze di quella che il presidente del Consiglio Enrico Letta ha definito pochi giorni fa «crescita anemica». Tecnicamente si tratta di una crescita da prefisso telefonico, e di natura congiunturale e non sistemica, che non produrrà occupazione stabile. In inglese si chiama jobless recovery. Un processo già da tempo noto ai maggiori analisti delle politiche del lavoro, come del resto all’Ocse. Si tratta di una tendenza strutturale che, con ogni probabilità, non sarà invertita dagli avari segnali di «crescita» registrati nel secondo trimestre 2013. In Italia, al momento, l’«anemia» si traduce nel passo del gambero della recessione che è passata da -0,6% a -0,2% del Pil e a molti questo è sembrato annunciare il carnevale a fine anno. Ieri, nel suo paper di sei paginette, la Cna ha invece squadernato la realtà. Se crescita ci sarà, non ci sarà occupazione stabile. I posti di lavoro bruciati dalla crisi saranno persi per sempre.

Particolare attenzione è stata prestata all’andamento occupazionale nei settori dell’industria e nell’edilizia, dove la crisi si è abbattuta con maggiore virulenza dal 2008. Nel primo sono stati persi 370 mila posti di lavoro, 362 mila nelle costruzioni. In entrambi i settori si sono registrati incrementi consistenti della cassa integrazione (+6,4% nell’industria e +13,7% nelle costruzioni). A fine anno la perdita complessiva di posti di lavoro potrebbe essere rispettivamente di 224 mila unità e di 39 mila nell’edilizia, per un totale di 263 mila, la maggioranza del numero dei disoccupati annunciati per dicembre. L’industria è inoltre il settore che assorbe il maggior numero di ore di cassa integrazione. Rilevante sarebbe la perdita di posti di lavoro nel commercio, 41 mila in meno, dove il numero delle ore richieste nei primi sei mesi dell’anno è diminuita del 12% rispetto all’anno precedente. Anche l`artigianato sta passando mesi da brivido. Le ore autorizzate di Cig sono state 46,1 milioni con un incremento intorno al 10% (+4,1 milioni di ore) rispetto al 2012. In questo settore i posti a rischio sarebbero 28mila.

Sempre ieri l’Istat ha fornito alcuni dati illuminanti su una piccola porzione dell’altra «metà del cielo» dell’occupazione: quella precaria. Si tratta dei «lavoratori sottoccupati part time», coloro che accettano di lavorare meno ore (16) in mancanza di posti a tempo pieno (in media 35 ore). Una condizione che riguarda il 2,4% della forza lavoro in Italia (contro una media europea del 3,8%). Negli ultimi 5 anni ha raggiunto le 605 mila unità.