Napoli, 1999, una città in grande fermento. All’abituale vivacità sembra essersi aggiunta finalmente una speranza per il futuro. E lì, in quel momento, Agostino Ferrente e Giovanni Piperno stanno realizzando Lettera a mia madre, un documentario per Raitre. Magnifiche figure materne, osservate attraverso i figli. Enzo della Volpe e Fabio Rippa sono i due dodicenni maschi, Adele Serra e Silvana Sorbetti le ragazzine appena più grandi. Si parla, si balla, si sogna, si spera. La loro realtà non è il massimo, ma sono talmente giovani che vivono più di futuro che di presente.

Enzo è cicciottello, rimpiange di essersi inurbato con la famiglia, accompagna papà a fare il posteggio presso i ristoranti, quando racconta gli si affianca un ragazzino creando una fantastica gag. Eppoi quando canta Passione, pur così piccolo, riesce a suscitare una forte emozione, per questo sogna il conservatorio. Fabio è vivace, di intelligenza pronta, lui fa le interviste a mamma in pescheria, unica donna tra tanti uomini («qui sono uomo anch’io, poi a casa torno donna»), ipotizza quella al contrabbandiere, inchioda il poliziotto con le sue domande insistenti e quando racconta episodi di vita viene sbertucciato da voci anonime.

Adele è appassionata di ballo, vorrebbe il tatuaggio come papà, che se l’era fatto fare in carcere, vive con lui e i fratelli da quando mamma se n’è andata. Poi c’è Silvana, le piacerebbe diventare modella, ha una sorella nata fratello e una mamma fantastica. Un mondo pervaso da canzoni neomelodiche e da aspettative.

Sono passati poco più di dieci anni, è cambiato il millennio, è cambiata la città sono cambiate le aspettative. Ferrente e Piperno sono andati di nuovo a cercare quei quattro ragazzini intervistati, ora giovani adulti. Enzo per un po’ ha trovato lavoro vendendo porta a porta contratti telefonici, lui pensa positivo, ma il mondo intorno non è proprio rosa. Fabio è rimasto scosso dalla morte violenta del fratello, non sembra in grado di prendere in mano le redini della sua vita, è disoccupato, prova affiancando Enzo, ma è più lucido e cinico, non sembra disposto a fare sacrifici per pochi spiccioli.

E le ragazze? Non è andata molto bene. Figli, lavoretti precari e sogni infranti. Sogni che sono andati a sbattere sul muro che divide la realtà dalle speranze. La disoccupazione, soprattutto giovanile, morde come un cancro una società togliendo ogni energia, la città è come sprofondata nelle viscere di quella Napoli sotterranea speculare a quella di superficie, ma dove la luce non potrà mai arrivare. I nostri quattro giovani fanno parte di un’intera generazione cui è stato sottratto il futuro.

Per questo vedere Le cose belle è importante per quanto doloroso, perché significa guardare in faccia la realtà di una città e di un paese incapaci di trovare qualsiasi prospettiva nonostante le sue infinite risorse di creatività, intelligenza, talento. Vite che scivolano via tristemente, vite che fanno male a chi le vive e a chi le guarda a condizione che sia ancora in grado di provare empatia. Il tempo non è galantuomo, è un mariuolo.