A Yarmouk era il pianoforte di Aeham Ahmad, a Mosul il violino di Ameen Mukdad. Il silenzio sul campo profughi palestinese in Siria occupato dall’Isis era lo stesso che rimbombava nella città irachena.

A metà aprile il giovane violinista iracheno ha suonato in pubblico. Non lo faceva dal giugno 2014 quando lo Stato Islamico occupò in 48 ore Mosul: «Non dimenticherò mai il 10 giugno 2014 – racconta al Telegraph – È il giorno in cui la musica è morta».

Dopo tre anni ha toccato le corde del suo violino in un luogo simbolo, la tomba del profeta Giona, Younis nel Corano, sito sacro per musulmani e cristiani. Ad ascoltarlo c’erano una ventina di persone, sulla collina di al-Tawba (pentimento) tra le rovine della moschea/chiesa di Giona, semidistrutta nel 2014 dall’Isis.

E LA MUSICA È TORNATA a Mosul. Almeno nella parte già libera: dal 17 ottobre le truppe governative hanno lanciato una vasta operazione per strappare la città dal giogo islamista.

La parte orientale, meno residenziale, più industriale, è stata liberata. Ad occidente, oltre il Tigri, la città vecchia con le sue vie strette e i mercati delle spezie, buona parte dei quartieri è stata ripulita dai miliziani, che restano però arroccati in una manciata di chilometri quadrati.

Dei due milioni di sfollati c’è chi sta tornando. E con loro torna la vita quotidiana, compresa la musica: dopotutto Mosul è la città natale dei più noti musicisti iracheni, come Munir Bashir (il suo oud è conosciuto in tutto il mondo arabo) e suo fratello Jamil, violinista.

I negozi di dischi riaprono, sulle mensole ricompaiono i dischi di artisti turchi, arabi, occidentali, le radio vengono riaccese in strada, Ameen suona in pubblico. Racconta il giornalista Quentin Müller sull’agenzia Middle East Eye: «La musica tuona dalle auto e dai taxi che sfrecciano a Mosul est, i pedoni cantano e muovono la testa sui ritmi che arrivano dagli iPod e dai cellulari».

Con l’Isis era vietato, come era vietato truccarsi, fumare narghilè e sigarette, usare internet e cellulari, giocare a calcio, addirittura allevare uccelli. Pena la gogna pubblica, punizioni corporali nelle piazze.

Per costringere i tanti Ameen di Mosul a non suonare più, la polizia “morale” dello Stato Islamico aveva confiscato gli strumenti e costretto i negozi di musica ad abbassare le saracinesche.

La musica, però, non è mai scomparsa da Mosul: la radio si ascoltava di nascosto, in casa, gli strumenti si suonavano tra le mura domestiche, nelle cantine. Ameen per anni ha pubblicato su YouTube le sue performance private: «Sentivo di dover fare qualcosa, combattere così l’ideologia di Daesh».

A SFIDARE L’ISIS e la sua manichea e deviata interpretazione dell’Islam erano anche i tassisti: «Quando prendevi un taxi, se non avevi la barba lunga, i capelli lunghi o una divisa – racconta Ameen a Middle East Eye – il tassista accendeva la radio, musica proibita, stazioni proibite».

Non quella ufficiale di Daesh, al-Bayan, ma quella basata a Erbil, al-Ghad. Ha aperto nel marzo 2015, stazione “pirata”, per far arrivare nelle case di Mosul notizie da fuori, ma anche per trasmettere le voci dei residenti della città occupata che chiamavano per raccontare la vita sotto assedio.

Una vita che, però, tanti temono non si ricomporrà mai insieme a quella particolarissima fabbrica sociale, un mix di etnie e confessioni figlio di una storia lunga otto millenni e dell’incontro ininterrotto di popoli e culture: per Mosul, attraversata dal Tigri, sono passati assiri, greci, persiani, mongoli, ottomani.

È stata casa a ebrei e cristiani, yazidi, sciiti e sunniti, shabak e kurdi. Oggi è stata svuotata fisicamente della sua popolazione, ma anche della fiducia per un futuro normale.

«La distruzione dell’antichissima fabbrica sociale di una città che per secoli ha ospitato persone di diverse religioni e background etnici differenti, un melting pot di musulmani, assiri, caldei, arabi, kurdi turkmeni, yazidi, non esiste più e sarà difficile rimetterla insieme», spiega al manifesto l’analista iracheno Salah al-Nasrawi.

«È COME UNA FINESTRA: se la rompi, rimettere insieme i pezzi di vetro è impossibile. Le minoranze hanno perso fiducia verso la comunità musulmana che non è riuscita a proteggerle sotto l’Isis. C’è bisogno di un sistema politico nuovo che garantisca le minoranze, le faccia tornare a Mosul».

A monte sta l’iniziale accoglienza dello Stato Islamico, visto da una parte dei sunniti come strumento di liberazione dal governo sciita che dalla caduta di Saddam nel 2003 non ha incluso la comunità nella nuova vita politica e economica.

Gli Usa hanno imposto la totale ristrutturazione delle istituzioni, purgandole della componente sunnita e provocando subito dopo l’invasione ribellioni violente. Gli anni successivi hanno visto la crescita repentina di al Qaeda prima e poi della sua costola, l’Isis, a cui hanno aderito membri laici del partito Baath, ex generali e soldati che puntavano a rientrare nelle istituzioni: «Molti a Mosul hanno partecipato alle proteste sunnite nazionali contro gli abusi delle forze di sicurezza sciite, la corruzione e l’esclusione dal governo. Questo ha generato simpatia, all’inizio, verso i miliziani islamisti».

Un’atmosfera corrotta dalla marginalizzazione che ha permesso all’Isis di prendersi la città senza trovare resistenza. Le conseguenze si sono viste subito e la comunità sunnita si è spaccata, a scapito delle minoranze vessate e abusate dal “califfato”, costrette a scegliere tra la conversione, la fuga o la vita.

I sunniti hanno capito dopo di essere stati sfruttati dall’Isis e come gli altri hanno sofferto immensamente: «Chi non ha sostenuto Daesh non si fida più di chi lo ha fatto, la comunità sunnita è divisa e va ricompattata, pena un conflitto interno molto pericoloso. Una nuova sollevazione sunnita potrebbe emergere contro Baghdad».

«NESSUNO È IN GRADO di prevedere cosa accadrà a Mosul dopo l’Isis. Ci sono questioni complicate: sicurezza, stabilizzazione della città, futuro politico – aggiunge al-Nasrawi – Si deve individuare una formula nuova, perché Mosul rappresenta in piccolo l’Iraq: è specchio della sua diversità. Va trovata una soluzione politica inclusiva delle comunità e dei loro rappresentanti politici, soprattutto nella fase transitoria per mantenere pace e ordine. Nessun cristiano, nessun yazida o sciita sarà altrimenti in grado di tornare: hanno visto atrocità, le hanno subite sui propri corpi e sulle proprietà, stupri, uccisioni, confische, ed è praticamente impossibile che queste minoranze tornino sentendosi al sicuro».

E il timore è quello con cui al-Nasrawi ci lascia: «L’essenza di Mosul era la sua diversità culturale. È svanita e Mosul non sarà mai Mosul di nuovo».