Il due giugno scorso, la notizia del tentato suicidio di Stepan Latypov ha suscitato emozione in Bielorussia e nel mondo. Latypov si trovava davanti al proprio tribunale e aveva appena ascoltato la testimonianza del padre. Il suo viso mostrava segni di sevizie. Latypov è improvvisamente balzato sul banco e si è pugnalato la gola con una penna. È stato medicato e riaccompagnato in prigione.

Stepan Latypov ha 41 anni, è un agronomo specializzato nell’arboricoltura. È accusato di aver creato una chat online per coordinare le attività del movimento di protesta contro il regime di Aljaksandr Lukasenka, di aver fornito dei simboli alla protesta e, la più fantasiosa delle accuse, di aver tentato di avvelenare degli agenti di polizia con dei diserbanti. Latypov afferma di essere stato costretto a firmare una confessione ottenuta sotto tortura fisica e psicologica.

I murales
Ma perché questo processo farsa ? Chi è Stefan Latypov? E a cosa serve la chat che è accusato di aver creato ? Nell’agosto del 2020, il quartiere residenziale dove abita Stefan diventa improvvisamente il centro di un’intensa attività di artisti e di attivisti antiregime. Tutto comincia quando un anonimo graffitaro dipinge il murales dei due tecnici del suono che alcuni giorni prima hanno diffuso la canzone di Viktor Tsoi We Want Changes Mi zhdem peremen (vogliamo aspettiamo cambiamenti) ad una manifestazione pro-governativa. Per questo affronto, i due tecnici, ribattezzati «DJ del cambiamento », sono stati costretti a lasciare il paese.

Come nelle cospirazioni ottocentesche, questi murales, dipinti in prossimità (dentro) del cortile interno di una grande residenza popolare, poi battezzata «Piazza dei cambiamenti», sono diventati un linguaggio in codice della protesta. In ogni quartiere popolare, i murales indicano la presenza di un cortile dove si ritrovano gli oppositori: semplici abitanti, artisti, attori licenziati dal teatro Yanka Kupala oppure giornalisti dei media indipendenti chiusi dalla censura.

Il comune di Minsk ha provato a cancellare i graffiti, ma ogni volta vengono rifatti. In novembre, uno dei residenti del quartiere, iscritto alla chat-room, il 31enne ex soldato e diplomato delle belle arti Roman Bondarenko, è stato brutalmente pestato ed è morto in seguito ai colpi ricevuti. Secondo alcuni è l’autore dei murales. O forse uno degli autori. Il suo funerale si è trasformato in una marcia di protesta che si è estesa a diverse città. Il suo ultimo messaggio in chat, «Ja vikhozhu» che vuol dire «esco», è diventato uno slogan. I giornalisti che hanno diffuso la commemorazione di Bondarenko filmando da uno degli appartamenti di «Piazza del cambiamento» sono stati condannati a due anni di carcere.

Che cosa vuol dire vivere oggi in Bielorussia? Chi sono i protagonisti di questo movimento che da un anno è brutalmente represso? Come vivono, cosa sperano, come sopravvivono?

Prima testimonianza: Tatiana
Tatiana è curatrice (La curatrice) e produttrice di eventi culturali a Minsk: «La crisi politica ha avuto un effetto su di me, sul mio stato d’animo, sulla mia intimità di persona. Ma anche un effetto molto concreto sul mio lavoro. È impossibile essere indifferenti o pensare ad altro quando ogni giorno ci sono arresti. Un giornalista mio amico ha descritto perfettamente la nostra giornata tipo. La polizia politica fa gli arresti alle 7 del mattino. Alle 8, se non sei stato arrestato, guardi i social per vedere a chi è toccato. Alle 9, fai la fila per andare a portare da mangiare ai tuoi amici in prigione. Alle 10 vai alle udienze dei tuoi amici in tribunale. Alle 11, è la guardia di finanza a fare gli arresti. Alle 12, se non sei ancora stato arrestato, guardi su internet a chi è toccato. Dalle 15 alle 18 ci sono le decisioni della corte penale. Alle 19, è la volta della polizia criminale, la più violenta. Alle 20, se sei ancora libero, guardi ancora internet per sapere chi dei tuoi amici è stato portato via. Questa è la nostra giornata. È impossibile mettere da parte tutto questo e pensare a un film, a una programmazione o ad altro. Tutti quelli che conosco mi dicono la stessa cosa – artisti, musicisti, compositori, registi… Quello che sta accadendo in Bielorussia è un trauma le cui conseguenze continueranno ad occuparci per molti anni.

Resto paralizzata davanti alle notizie, riesco soltanto a leggere. Per lo più letteratura scandinava. O a vedere qualche vecchio film poliziesco americano. Tutte distopie, ovviamente.

L’epidemia? Non abbiamo avuto un vero e proprio lockdown. Le istituzioni culturali sono rimaste aperte perfino durante i momenti peggiori della crisi sanitaria. Obbligati solo dal nostro senso di resposabilità, abbiamo cancellato alcuni eventi. Ma, mentre in primavera e in estate tutte le cancellazioni erano dettate dalla pandemia, in agosto abbiamo dovuto annullare gli spettacoli del Kinemo Silent Film e Live Music Festival perché temevamo per l’incolumità del pubblico. C’erano continui scontri in strada tra gli oppositori e la polizia.
I nostri eventi non sono finanziati dallo Stato ma da istituti culturali con sede all’estero. E già questo, in Bielorussia, è diventato politicamente sospetto. Per quanto riguarda l’investimento privato, da quando Victor Babarico è stato messo sotto processo, l’arte bielorussa ha perso il più importante, se non l’unico, mecenate del paese.

Anche trovare dei teatri, dei cinema o dei luoghi d’esposizione è diventato difficile. Molti spazi sono stati chiusi dall’autorità giudiziaria. Penso per esempio all’OK16 che è stato creato da Victor Babarico e dal direttore artistico Masha Kolenikova alla galleria Y (iù) il proprietario Sasha Vasilevich è stato arrestato lo scorso agosto. Un gran numero di locali è stato sottoposto ad una ondata di controlli e chiusure forzate in seguito agli scioperi del 26 ottobre. Anche il visto della censura per distribuire le copie in sala è diventato difficile.

È a quel punto, quando non c’era più dove andare, che è apparso il fenomeno dei cortili. Per capire questo fenomeno, che è stato così caratteristico della protesta bielorussa, bisogna tenere presente un aspetto dell’eredità sovietica. In Unione sovietica non esiste la piazza in senso europeo. La socialità era organizzata intorno ai grandi complessi residenziali costruiti per il proletariato. Questa struttura sociale di base esiste ancora nella vita bielorussa. In settembre, dopo che la repressione di agosto ha messo fuori gioco tutti i luoghi di ritrovo ordinari, il movimento si è dunque appropriato del cortile, di questo ritrovo tipico dei grandi complessi residenziali per il popolo. Il primo è stato chiamato «cortile dei cambiamenti». Rapidamente, ne sono apparsi dozzine in tutta Minsk. Luoghi per ritrovarsi, per bere del tè, ascoltare un concerto, e la sera proiettare dei film. Sono stati molti importanti.

Un altro fenomeno tipico di questi mesi, ma del tutto opposto è quello dell’andare in campagna. Ad un certo punto, molti bielorussi hanno smesso di discutere della situazione. Non per indifferenza, ma per disperazione. Si arriva ad un punto in cui non si riesce più a parlare, perché la realtà è diventata troppo dolorosa. Come molti altri, anch’io ho cominciato ad andare sempre più spesso fuori città, per stare da sola e camminare per ore nei boschi. È un modo per cercare di non impazzire».

Seconda testimonianza: Olga
Olga è ricercatrice nel Dipartimento di Arte Contemporanea del Museo delle Belle Arti.
«Molti dei nostri progetti sono andati in fumo a causa del virus. A proposito della situazione politica, devo riflettere bene prima di rispondere.

Da un lato, se mi limito a parlare del museo dove lavoro, devo dire che qui non c’è stata repressione. Né da parte dell’amministrazione. Né da parte della polizia politica. Sia io che i miei colleghi siamo liberi di decidere i nostri progetti. In autunno, abbiamo protestato sulle gradinate del museo con quasi tutto lo staff. Non so, forse non ci prendono molto sul serio… Oggi stiamo discutendo delle mostre da fare per l’anno prossimo. Non c’è stato imposto alcun tema dall’alto.

D’altro lato, il significato di tutti i nostri progetti è mutato a causa del clima politico e della repressione intorno a noi. Prima di agosto, avevo proposto una mostra sul realismo socialista. Il progetto era stato approvato e finanziato. Ci stavamo lavorando quando è cominciata la protesta. Improvvisamente quel tema ci è parso irrilevante, e persino sinistro, e abbiamo deciso di cancellarlo. Il 9 agosto, abbiamo inaugurato una mostra sulla cultura Bielorussa intitolata «Il codice rosso della nazione» incentrata su come il colore rosso appare nella storia dell’arte bielorussa, dai tempi antichi ai giorni nostri. Prima di agosto, sembrava una tema affatto innocuo. Con l’avvento delle proteste, tutta la cultura nazionale tradizionale e presovietica è diventata sospetta, perché i manifestanti se ne appropriano e la utilizzano come simbolo di protesta. Il più comune di questi simboli tradizionali è l’antica bandiera bianca e rossa, che i manifestanti usano sia in internet che in strada. Affiggerla è diventato reato.

L’arte contemporanea Bielorussa riflette il trauma politico attuale. Ma i nostri artisti sono quasi tutti espatriati. Bisogna trovarsi all’estero per vedere cosa fanno. Noi, seduti a Minsk, non lo vediamo. La galleria Y era il luogo dove si poteva fare e mostrare una riflessione politica con l’arte. Ma è stata chiusa, e ora non c’è più uno spazio che può ospitare arte contemporanea. A parte i cortili. Ho molto riflettuto su come dare spazio alla situazione politica nel mio lavoro. Abbiamo in questo momento una mostra sull’arte tradizionale, mostriamo delle antiche sculture in legno. Una statua del Cristo, per esempio, si intitola: «Perché mi hai abbandonato?», le ultime parole sulla croce. Inevitabilmente, la scultura interroga lo stato d’animo dei visitatori, essa è come catturata dal tempo presente, con il quale dialoga indirettamente. Perfino i ricami tradizionali, rossi su tessuto bianco, sono diventati improvvisamente sospetti e mostrarli può essere considerato un manifesto politico, e quindi un reato – tanto che abbiamo paura ad esporli.

C’è un grande senso di frustrazione tra i miei colleghi, e tutti si chiedono come lasciare il paese. Molti sono già partiti. Tutti hanno la valigia pronta. Ogni giorno, arrivando al lavoro, si fa la conta. Chi non c’è non è malato, è partito. Ma non per tutti è possibile.

La mia missione è di preservare, di conservare, di salvare le opere d’arte e trasmetterle alla generazione successiva. Finché la repressione non mi impedirà di lavorare, continuerò a stare al mio posto. Mi piace il mio lavoro e le persone con cui collaboro. Ci sono dei momenti di euforia, come se stessimo vivendo un momento storico. Tutto d’un tratto è apparso un presente di cui ho coscienza ed è apparso in questa mia giovane età. È apparso anche un noi. Ci sono i colleghi, la famiglia, gli amici, stiamo tutti vivendo la stessa cosa. Che cosa possiamo fare? Nulla. Non è chiaro come potremo continuare a vivere. Una mia amica è stata arrestata. Ha scontato la sua pena. A me ancora non è toccato. Per ora. La repressione colpisce gli attivisti per i diritti umani, i miei amici. Non ho ancora cambiato la bandiera rossa e bianca dalla mia pagina Facebook, ma ci penso in continuazione, per essere onesti. Mi spiace di parlare così, come se fossi dall’analista».

Terza testimonianza: Anna
Anna è fotografa e cameraman. Lavora con diverse agenzie stampa internazionali:
«Nessuno dei miei amici giornalisti lavora più per i media di Stato. Quelli che lo fanno ancora, non possono essere chiamati giornalisti, e non sono più degli amici. Prima di agosto, c’erano ancora rapporti tra colleghi, ma da quando è scoppiata la rivolta i giornalisti indipendenti hanno rotto ogni contatto con chi continua a collaborare con i media ufficiali. Anche quando si trattava di amici di lunga data.

Non posso parlare molto del mio lavoro, anche se vorrei. Non c’è ancora ufficialmente una legge contro gli «agenti stranieri» [espressione generica che mette sullo stesso piano il vero e proprio spionaggio e il giornalismo indipendente o il fatto di lavorare per organizzazioni con sede all’estero,ndr] come in Russia, ma è come se. La nostra situazione è persino peggiore – qui non c’è nemmeno bisogno di una legge per arrestare una persona. Molti colleghi che lavoravano con agenzie di stampa straniere hanno perso l’accredito. Non possono più lavorare come prima. È difficile sapere come persone che lavoravano con l’AFP (Agence France Presse) possano sopravvivere ora. Molti hanno lasciato il paese. Altri sono stati inviati a coprire eventi sportivi, che sono tutti stati spostati all’estero a causa della situazione. Di recente, sono andata a filmare il funerale di un uomo morto in prigione. Con i colleghi avevamo paura di essere arrestati e imprigionati sul posto. Ovviamente era pieno di agenti della sicurezza interna. I « tikhari», i silenziosi, come li chiamiamo. Vestiti da persone normali, pretendono di essere delle persone. Quando siamo usciti abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo.

Anche ad andare a filmare un processo c’è un rischio di trovarsi a sua volta sotto processo. La reporter Liubou Kaspiarovich è stata arrestata mentre faceva delle interviste in tribunale: 15 giorni di prigione. La mia collega Tania Kapitonova è stata arrestata dopo aver filmato una manifestazione di donne vestite in bianco e rosso. Il giorno dopo, stava filmando una conferenza, i tikhari sono arrivati e l’hanno arrestata con l’accusa di aver partecipato alla protesta. Ovviamente è falso, ma non ha importanza.

Ti spingono alla disperazione. Vengono a casa. Minacciano i tuoi familiari. Ti impediscono di lavorare. Alcuni perdono la testa a causa di queste pressioni. In Russia, la giornalista Irina Slavina si è data fuoco. Solo pochi giorni fa, Stepan Latypov si è sgozzato con una penna davanti al suo tribunale. Leggendo queste notizie, un amico fotografo mi ha detto: anch’io ho voglia di andare in piazza e darmi fuoco».