«È un Dublino». Nella Stazione Centrale di Milano è una frase che si sente pronunciare già salendo le scale mobili che conducono al mezzanino dove da oltre un anno e mezzo sono migliaia i profughi in transito. Fuggono dalle guerre e vogliono andare a nord, in Danimarca, Svezia, Germania in particolare. L’Italia, per loro, è solo una tappa obbligata di passaggio. Tra le tante migliaia di migranti passati in questi anni non più di 200 hanno deciso di fermarsi.

Le persone che si incontrano in stazione sono arrivate da poco dalla Sicilia o appunto, sono dei «Dublino», i richiedenti asilo “schedati” sulla base del regolamento europeo che prevede che la domanda venga analizzata dallo Stato dell’Unione dove il richiedente ha fatto ingresso. Per evitare che vengano presentate più domande contemporaneamente, esiste un archivio comune delle impronte digitali.

«Mi hanno rovinato la vita, se devo morire preferisco tornare in Siria». A parlare è un ragazzo di Aleppo che, a Trapani, è stato costretto a lasciare le proprie impronte digitali. È riuscito comunque ad arrivare in Germania nel tentativo di ottenere un ricongiungimento familiare ma, proprio in virtù di quell’archivio, è stato respinto in Italia. Insieme all’identificazione forzata ha raccontato anche di essere stato picchiato dalla polizia mentre si trovava nel centro di accoglienza in Sicilia. Non è l’unico ad essere stato rimandato indietro. Lo stesso è successo anche ad un altro siriano, ricacciato in Italia dopo 8 mesi trascorsi in Danimarca. Entrambi adesso aspettano sul mezzanino della stazione dove dormono da 5 giorni.

In tanti sono nelle stesse condizioni. Molti non riescono nemmeno a varcare il Brennero, specie in questi giorni in cui il passo è ancora chiuso dopo il G7 in Germania della settimana scorsa. Una ragazza etiope ci ha provato qualche giorno fa. Voleva arrivare a Londra, dal fratello. Non ci è riuscita e ora vive nell’aiuola di fronte all’ingresso della stazione. Mahmud, un siriano di Damasco, racconta una storia simile. È un mese e mezzo che viaggia per fuggire dalle bombe della guerra civile nel tentativo di arrivare dai parenti in Germania. Dalla Siria è arrivato in Libia, passando per il Sudan. Dopo 20 giorni in attesa di prendere il mare ha pagato 5 mila dollari per rischiare il naufragio. È stato soccorso e da Catania ha preso un treno fino a Milano dove nel frattempo è stato ingoiato dal limbo del mezzanino.

Dal 18 ottobre 2013 sono state circa 64.500 le persone che sono passate da qui. Gli ultimi arrivi lo scorso giovedi: 480 persone, per la maggioranza cittadini eritrei. Difficile, al momento, ricostruire le loro storie. Quasi nessuno parla inglese e non ci sono interpreti dal tigrino. Quelli che sono arrivati sono troppi per venir sistemati. Hanno trascorso la notte in stazione, sulle panchine di pietra del mezzanino o su quelle di metallo dei giardini di Piazza Duca d’Aosta.

I centri di accoglienza milanesi sono troppo affollati perché si riesca a far fronte ai nuovi arrivi. Progetto Arca è l’associazione che si occupa dell’accoglienza, fornisce generi di prima necessità e distribuisce le persone nei centri sparsi per la città: l’allora Cie di Via Corelli, quelli di via Aldini e Mambretto, Casa Suraya. «Negli ultimi 10 giorni – spiega un responsabile – tra le 150 e le 300 persone hanno dormito all’aperto». I centri, che ospitano già un migliaio di persone, sono al collasso. La precedenza va a donne, bambini e ai nuclei famigliari. Molto spesso gli uomini, specie quelli che viaggiano da soli, restano fuori. Da inizio anno sono arrivate oltre 10 mila persone.

I numeri sono quelli di Palazzo Marino che nella persona dell’assessore al Welfare, Pierfrancesco Majorino, ha rinnovato l’invito a Grandi Stazioni di migliorare l’assistenza ai profughi che quotidianamente arrivano in città. «Da mesi – dice – chiediamo che la situazione si sblocchi e vengano messi a disposizione dei locali idonei. Sappiamo che esistono ampi luoghi inutilizzati della Stazione dove accoglienza, smistamento e organizzazione delle presenze in città potrebbero essere svolte più adeguatamente». L’altra richiesta, per lungo tempo inascoltata, rivolta ad Asl e Regione Lombardia, per la creazione di un presidio medico permanente allestito in Stazione Centrale. Dallo scorso giovedi mattina è operativo nell’atrio. «In questi primi 2 giorni – ha spiegato Giorgio Cicanali, il medico responsabile del presidio – abbiamo assistito una media di 50 persone. Tra queste sono stati certificati 30 casi di scabbia e uno di malaria che sono stati trasportati in centri specializzati per le cure».

Il presidio mobile offre una prima risposta alle esigenze sanitarie, i casi più critici vengono gestiti in ospedale. Da oggi, per 2 ore al giorno, ci sarà anche un pediatra che si unisce alla squadra di infettivologi già al lavoro. Il servizio, che non ha al momento una data di fine, è attivo dalle 9 alle 22. «I primi due giorni sono serviti per rodare la macchina – continua il medico – ma l’orario, così come le prestazioni offerte sono soggette alle esigenze che si manifesteranno giorno per giorno». Cicanali esclude che si possa parlare di emergenza umanitaria o di rischio contagio, respingendo le polemiche degli ultimi giorni. «L’unica emergenza – dice – è quella che vive chi fugge dalle guerre».

Comune, Caritas, Privato Sociale, Protezione Civile Comunale e volontari proseguono il loro lavoro. Ma non basta. A chiedere che venga fatto di più è il sindaco Pisapia: «Non si può pensare che Milano da sola, o con pochi altri Comuni, possa risolvere un problema epocale. Oggi sempre di più ci vuole corresponsabilità di tutte le istituzioni a partire dal governo, dalle Regioni e soprattutto dall’Europa».

La risposta offerta ad oltre 64 mila persone, di cui 14 mila bambini, non può non venir coordinata dal Ministero dell’Interno che non ha mai conteggiato quell’esercito di invisibili. La memoria delle loro storie, per la maggior parte, risiede nelle tante persone che portano aiuto al mezzanino. Conoscono le esigenze e le paure di chi viaggia. Si ricordano dei loro volti.

Le storie più incredibili meritano una fotografia. Come quella di Abdel, che a 92 anni ha sfidato il mare e adesso aspetta a Milano di poter scappare in Europa.