Lungi dall’essere una pratica postmoderna, la lettura ad alta voce di fronte a un pubblico più o meno allargato è una consuetudine che già Cervantes dava per scontata quando sul frontespizio del LXVI capitolo del Chisciotte scriveva: «Che tratta di ciò che vedrà chi lo leggerà, o che udrà chi lo sentirà leggere». E del resto, anche nella Francia del XVII secolo si moltiplicarono le «compagnies» che si riunivano per ascoltare la lettura di un libro, mentre le letture salottiere impazzavano, e se da un lato Molière diede di questo esercizio sociale raffinato e non immune da vanità un ritratto parodistico nelle Femmes savantes, è anche vero che nelle veglie del mondo contadino di Ancien Régime la messa in comune di un testo scritto era spesso il tramite per la alfabetizzazione delle campagne.

Certo, da quando si è inaugurata la cultura del narcisismo, gli intenti che muovono gli scrittori a declamare e discutere pubblicamente le loro opere hanno subìto sensibili cambiamenti, ma sentire il suono della propria voce estendersi oltre i confini del proprio corpo per toccare quello altrui è pericolosamente più attraente che non interrogarsi in silenzio sull’effetto provocato dal proprio libro; non a caso, il proposito che Jonathan Franzen sintetizzò nel titolo della sua raccolta di saggi, Come stare soli, fu da lui stesso vanificato ancora prima di finire il libro, quando già accettava inviti in mezzo mondo per leggerne e pubblicizzarne le pagine più apertamente contraddittorie rispetto agli intenti dichiarati. E anche la sua preoccupazione sui destini della letteratura nel contesto di una vita «sempre più strutturata in modo da evitare quei conflitti su cui la narrativa… ha sempre prosperato» si rivelano in realtà infondati.

Da Le Breton a Dubus III

Al Festivaletteratura di Mantova di quest’anno, che sarà forse ricordato come l’ultimo prima della grande fagocitazione della Rizzoli Libri da parte della Mondadori, gli incontri interessanti sono tanti quanti se ne contavano nelle edizioni migliori dei primi anni, e non tutti obbediscono all’imperativo di escludere ciò che non si risolve in spensierati intrattenimenti.

Volendo accedere al festival da una porta molto laterale, si potrebbe – per esempio – partire dall’incontro con l’antropologo David Le Breton, autore di un libro interessante titolato Esperienze del dolore (Cortina 2014), dove tutto lo spettro delle umane sofferenze, anche quelle associate al piacere o alla realizazione di sé, vengono analizzate, tenendo in mente che il dolore è una trasformazione al tempo stesso somatica e semantica, e per essere tollerabile esige di trovare un significato, di associarsi almeno in parte a una sorta di metafisica della giustizia.

Un’altra porta periferica potrebbe essere aperta sulla rassegna cinematografica «Pagine nascoste», che sabato alle 14.30, prevede – tra gli altrui – un film di Nancy Kates su Susan Sontag, presentato da Allan Gurganus. Una volta imboccata, invece, la strada maestra, il primo incontro da non perdere sarà con lo scrittore americano André Dubus III (giovedì, h. 17.30 in lingua inglese alla Tenda Sordello, e venerdì alle 11.30 alla Chiesa di Santa Paola, intervistato da Fabio Geda) un autore la cui biografia è ricostruibile dai racconti che egli stesso ne ha fatto in I pugni nella testa (Nutrimenti 2010), serbatoio di notizie sulla sua vita e insieme malinconico e passionale romanzo di formazione tipicamente americano, dove ci si sposta di continuo, si divorzia, si beve molto, si fanno mille mestieri.

Più o meno una volta l’anno il padre di André, anch’egli scrittore, cambiava college e imponeva alla famiglia nuovi traslochi in diverse cittadine di provincia, dove ogni volta i ragazzi si trovavano a subire la violenta diffidenza dei nuovi compagni. Poi venne l’incontro del padre con una allieva, l’abbandono della famiglia, i rimedi per provvedere ai soldi, persino vendendo il proprio sangue, mentre l’approssimarsi alla povertà si traduceva in spostamenti verso quartieri sempre più desolati, dove il teppismo era la regola, e dove Dubus III imparò a farsi i muscoli per aprirsi una via verso «la nera speranza». Dopo avere ambientato a San Francisco il suo bestseller, La casa di sabbia e nebbia (Nutrimenti, 2014) Dubus III è tornato alla provincia americana del New England, nell’area che gli è più familiare, fra il New Hampshire e il Massachusetts, a nord di Boston e lungo la foce del fiume Merrimack, paesaggi che l’autore americano restituisce cogliendovi le amare ricadute della desolazione e dell’inquinamento, mentre ritrae le mediocrità di una middle-class incapace, soprattutto, di trovare le risporse mentali per amare di un sano amore gli altri.

Attesissimo perché assente da dieci anni dalla scena letteraria, tornerà a Mantova Kazuo Ishiguro, di cui Einaudi sta per pubblicare Il gigante sepolto, una tanto gradevole quanto sorpredente incursione nel genere fantasy, tra le cui pagine abitano creature minacciose, paesaggi inospitali, qualche orco sgangherato, elfi invadenti, e su tutto e su tutti incombe il fiato incantatore di un drago-femmina, che ha convertito in nebbia i ricordi degli uomini. Ambientato a non molti anni dalla morte di re Artù, il romanzo ha per protagonisti due villici uniti da un tenace amore coniugale, che si mettono in marcia per raggiungere il villaggio dove il figlio li attende… se è vero che li attende: non è chiaro, infatti, perché mai il ragazzo se ne sia andato, forse per un litigio, forse per qualche altra dimenticata ragione che la nebbia generata dall’alito del drago ha reso impenetrabile.

Nel cammino i due contadini incontreranno più o meno valenti cavalieri, monaci infidi, un misterioso barcaiolo, e quando il drago verrà ucciso e la nebbia si ritirerà dai ricordi, si ritroveranno a interrogarsi sul guadagno che ne hanno derivato, perché non è detto che il lucido possesso della propria memoria non illumini verità che si preferiva restassero sepolte.

Per Kazuo Ishiguro è stato organizzato un primo incontro in lingua originale (venerdì alle h. 21 alla casa del Mantegna) dove parlerà delle sue esperienze di intrecci fra letteratura e cinema, e un secondo appuntamento sabato, quando verrà intervistato da Michela Murgia a Palazzo San Sebastiano (h. 11.15).

De Kerangal e Soyinka

In contemporanea, da un’altra parte della città (Basilica Palatina di Santa Barbara, h. 11 di sabato) una rivelazione della narrativa francese: Maylis de Kerangal (che sarà anche intervistata da Gabriele Romagnoli domenica alle 10.15), già molto lodata per la perizia esibita nel suo penultimo romanzo, Nascita di un ponte (Feltrinelli, 2013) – la cui costruzione aveva implicato un notevole sforzo di informazione prima e di immedesimazione poi nei tecnicismi della progettazione ingegneristica; il suo talento è stato confermato dall’ultimo romanzo Riparare i viventi (Feltrinelli, 2015), che racconta la parabola di una drammatica giornata, cominciata con un incidente automobilistico la cui vittima, un ragazzo di ritorno da una sessione di surf, arriva in ospedale in coma. Da quel momento sarà tutta una corsa verso le procedure necessarie all’espianto e alla donazione degli organi, cui i genitori acconsentono dopo quel travagliato lasso di tempo che è loro necessario per accettare la morte cerebrale del figlio, apparentemente addormentato nel suo letto di ospedale.

Precisa e al tempo stesso emotivamente fibrillante, la scrittura di Maylis de Kerangal elegge a protagonista della storia non un singolo personaggio ma una équipe (come già era accaduto nella stesura del romanzo precedente) perché questo le permette – ha detto – «di scomporre e rifrangere stati emozionali diversi fra loro e al tempo stesso di atomizzare la mia individualità».

Nel pomeriggio di sabato, un grande ambasciatore dei diritti degli Ogoni, il nigeriano Wole Soyinka, sarà intervistato dal direttore dello Hay-on Way Festival, Peter Florence (h. 15 convento di Santa Paola, poi alle 19 con Romano Prodi e Carlo Annese al Palazzo Ducale). Si presenta solenne nella andatura, statuario in tutta la sua altezza, i capelli e la barba bianchi: un grande saggio che ha speso il suo carisma per difendere il Mouvement of the Salvation of the Ogoni People, vincitore del Nobel nel 1986.

A Mantova incontrerà, fra gli altri, Noo Saro Wiwa, autrice di Looking for Transwonderland (Granta 2012) e figlia del poeta impiccato dal regime nigeriano per avere lottato contro gli abusi della Shell, che inquinava i territori del Delta del Niger con perdite di petrolio.

L’ultimo libro di Soyinka si intitola semplicemente Dell’Africa, ma alle sue spalle ha una produzione teatrale, narrativa, saggistica e poetica molto estesa, tra le cui pagine si legge il tragitto che porta al cuore dei misteri yoruba passando attraverso Nietzsche e le divinità frigie. Ha contestato il carattere artificiale e romantico del concetto di «negritudine», che sembra implicare da parte dei neri la ricerca di un senso di sé, di una identità, come se già non la possedessero. «La tigre non ha bisogno di pubblicizzare la sua tigrità – ha detto – per affermarla le basta saltare sulla preda».

Da Cercas a Richard Ford

Tutt’altro temperamento quello dello spagnolo Javier Cercas, di certo tra gli autori più amati fra quelli presenti a Mantova (due appuntamenti: sabato, h. 18.30 al Teatro Ariston con Marco Belpoliti, e domenica h. 15 Tenda Sordello), approdato al successo con un romanzo ormai celebre, Soldati di Salamina (Guanda, 2002) ambientato durante la guerra civile spagnola, e concentrato sul salvifico potere di uno sguardo, quello che passa tra il gerarca falangista Rafael Sanchez Mazas, inguattato nel bosco un attimo dopo la fuga dallo spiazzo destinato alla sua fucilazione, e il giovane miliziano che lo rincorre, poi miracolosamente lo risparmia.

Tra i suoi libri migliori, che definisce «romanzi senza finzione», c’è Anatomia di un istante (Guanda 2010) tutto focalizzato sul gesto di Adolfo Suárez che si rifiutò di obbedire al comando di buttarsi a terra, impartito dai golpisti mentre sparavano sul Parlamento nel febbraio del 1981, e l’ultimo (appena uscito da Guanda), che ripercorre la parabola esistenziale di Enric Marco, L’impostore, uno stupefacente bugiardo che per tre decenni lucrò sulla sua detenzione in un campo nazista, fatto mai avvenuto ma al quale tutti credettero, tributando la finta vittima di onori, riconoscimenti, incarichi degni di un eroe.

Quella di Mantova sarà anche l’occasione per anticipare il contenuto di un saggio in cui Cercas spiega cos’è per lui il «punto cieco» di un romanzo, quel luogo della trama che al tempo stesso presenta la massima opacità e la luce più rischiarante, il foro attraverso cui tutto si rende visibile, ascoltabile, intellegibile, se solo si sa prestare orecchio alla verità contenuta in ogni finzione.

Ultima tappa di questo percorso ideale attraverso i circa trecento appuntamenti del Festivaletteratura, l’incontro con Richard Ford (domenica, Palazzo Ducale, h. 15, intervistato da Gabriele Romagnoli), artefice di una figura amatissima della narrativa americana contemporanea, l’agente immobiliare, già giornalista sportivo e romanziere fallito Frank Bascombe, che Ford ha seguito durante tutte le fasi adulte della sua vita e che approda finalmente alla vecchiaia nell’ultimo titolo, Tutto potrebbe andare molto peggio (Feltrinelli, 2015).

Diviso in quattro novelle, il libro è tenute insieme dalla presenza sullo sfondo dell’uragano Sandy, che nel suo devastante tragitto si abbatté – era il 2002 – anche sulle coste del New Jersey alle quali Bascombe aveva fatto ritorno e tra le cui rovine si aggira nel libro, contemplando la sua vecchia casa, provvidenzialmente venduta, anni prima, a un disgraziato che ora lo vuole testimone della sua sventura.

Paziente, altruista, emblema dell’americano medio di buoni sentimenti, Bascombe legge per i ciechi, una volta alla settimana va al Liberty di Newark con un gruppo di veterani a accogliere i reduci dall’Afghanistan o dall’Iraq; ma il suo spirito critico si abbatte con sarcasmo sulla politica estera degli Stati Uniti, e non risparmia del resto neppure gli effetti collaterali della propria incombente vecchiaia, rendendocelo ancora più attraente.