Per Graham Vick la città Mahagonny è oggi, siamo noi, con il nostro gigantesco egoismo: il territorio urbano, il mondo globalizzato con le sue profonde disuguaglianze, violenze, con i media sensazionalistici e asserviti, con i profughi alle porte. Questo è il taglio scelto per l’ottima edizione Ascesa e caduta della città di Mahagonny, in scena all’Opera di Roma (stasera ultima replica).

Del resto si evince dal testo di Brecht, ma soprattutto dal capolavoro musicale e drammaturgico escogitato da Weill: con un piccolo colpo di genio Vick (con scene e costumi di Stuart Nunn, movimenti di Ron Howell, luci di Giuseppe di Iorio) aggiorna la connotazione ideologica e i caratteri stilistici dell’opera, che talvolta ne appannano la forza per un ascoltatore contemporaneo, consegnandoli a un cliché sospeso fra il musical e il quadro di Grosz. Il cambio di passo è nel terzo atto, dopo gli apocalittici quattro comandamenti del caos e della violenza dell’atto precedente. La giustizia è amministrata in uno studio alla Forum, ma il tempo del processo di Jimmy, accusato dell’atroce delitto di non avere soldi, non è di qualche giorno; sono passati vent’anni e tutti sono invecchiati: l’imputato, Jenny, una vecchietta semiparalizzata (ma in grado di tirar legnate ai poveri che le si accostano), i parzialissimi giudice e pubblico ministero Leokadja Begbick e Trinity Moses, le ragazze del bar di Mandalay, cadenti vallette spennacchiate.

Una gerontocrazia di mostri che opprime un popolo di giovani miserabili, i quali alla fine si riappropriano di una nuova Mahagonny sempre uguale, incurante persino di un Dio alla DeMille; ecco che sul finale tocca ai vecchi subire botte e ingiurie, e il coro, un popolo di anziani malmessi, invade la sala fra striscioni e folli proclami: anche le vittime sono carnefici a Mahagonny. Uno spettacolo senza esclusione di colpi, che cresce poco a poco, con un’ottima compagnia di cantanti-attori, fra cui spiccano Iris Vermillon, fantastica Vedova Begbick, voce autorevole e attrice impagabile, l’intramontabile Willard White come Trinity Moses, Measha Brueggergosman, una Jenny meno tagliente ma più calda e pastosa del consueto, e il bravissimo Brenden Gunnell, che veste i panni di Jim Mahoney in modo vivo e toccante, con voce fiammante.

E ancora i bravi Dietmar Kershbaum (Fatty) e Neal Davis (Joe), l’aitante Bill di Eric Greene e lo stralunato Toby Higgins di Christopher Lemmings, sepolto vivo dal terzo vitello del suo atroce banchetto. Davvero ammirevole il coro, sia per resa vocale che per la piena partecipazione: dalle sei amiche di Jenny, perfettamente in parte, ai militari, dai porporati ai finanzieri, dalla pop star ai vecchi macilenti fino alle ragazze in niqab. Con loro un ottimo manipolo di attori che scandiva a voce i tempi della narrazione, interpretando anche gli oppressi, assai minacciosi sul finale. John Axelrod sul podio sembrava soprattutto preoccupato a non trascurare le finezze, molte, della partitura: può farlo al meglio grazie alla prestazione solida e versatile di coro e orchestra. Il pubblico alla fine si entusiasma e applaude: con piena ragione.