Alla sua cinquantunesima edizione, il Macerata Opera Festival, guarda lontano: «Abbiamo preso molto sul serio il motto dell’Esposizione Universale che si svolge quest’anno a Milano e lo abbiamo fatto nostro: l’Arte, la Musica, il Teatro sono per lo spirito necessità primarie non meno del cibo per il corpo». Mentre il nostro paese diventa un palcoscenico planetario, il direttore artistico Francesco Micheli ci ricorda che l’opera «da sempre fa parlare italiano al mondo intero». Nelle opere della stagione c’è un riferimento al cibo: il simposio orgiastico di Rigoletto (1851) di Verdi, il pollo finto di Pagliacci (1892) di Leoncavallo, il vino e la mensa eucaristica del Venerdì santo in Cavalleria rusticana (1890) di Mascagni, la fame cronica dei giovani di Bohème (1896) di Puccini. Ma quel che più interessa di questo cartellone è che ospita classici «capaci però al loro debutto di scombussolare le regole del gioco: da quel momento nulla poteva essere come prima. È un omaggio all’inesauribile capacità di rinnovarsi propria di un linguaggio come l’opera che, pur colmo di “canoni” e “convenienze”, non smette di essere contemporaneo».

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Ecco allora il senso dei tre allestimenti attualizzanti: Rigoletto (regia: Federico Grazzini, scene: Andrea Belli, costumi: Valeria Donata Bettella) si svolge in un odierno luna park gestito da una banda di delinquenti capeggiati dal Duca (il cui non-nome diventa un realistico titolo malavitoso), il gobbo è un vecchio clown al soldo del boss, Sparafucile il gestore di un baracchino che disseta e sfama nottetempo gli sgherri e le loro amanti di una notte; Bohème (regia: Leo Muscato, scene: Federica Parolini, costumi: Silvia Aymonino) si svolge in una comune di hippies artistoidi alla fine degli anni Sessanta e davanti a un’acciaieria tra le proteste operaie; Cavalleria rusticana e Pagliacci (regia: Alessandro Talevi, scene: Madeleine Boyd, costumi: Manuel Pedretti) si svolge attorno a una piazza sormontata da una balconata con balaustra in stile liberty floreale, tipico degli anni in cui i due atti unici hanno iniziato a essere rappresentati in un’unica serata (fu lo stesso Mascagni a inaugurare questa tradizione nel 1926 alla Scala di Milano).

A ben guardare il cibo dell’anima impiattato allo sferisterio è speziato di veleno: tutte e quattro le opere mettono in scena la gelosia, lasciata prorompere, trattenuta o combattuta, come elemento drammaturgico decisivo. In Rigoletto è la gelosia del padre nei confronti della figlia, la gelosia sbeffeggiata di un altro padre (Monterone), la gelosia che dura un attimo del Duca e la mancata gelosia di Gilda nei confronti dell’amante libertino; in Bohème è la gelosia che Rodolfo usa come scusa per lasciare Mimì, terrorizzato all’idea di vederla deperire e morire di tisi; in Cavalleria rusticana è la gelosia sacrosanta di Santuzza, spogliata dell’onore e tradita dallo stesso uomo che ama, e la gelosia omicida di Alfio; in Pagliacci è la gelosia altrettanto vorace di Canio nei confronti di Nedda, dentro e fuori dal palcoscenico.

Ma veniamo al trattamento degli aspetti più schiettamente musicali delle opere di Verdi, Mascagni e Leoncavallo. Di Puccini ci occuperemo nei prossimi giorni. In Rigoletto, la direzione di Lanzillotta è corretta, ma manca a tratti di un po’ di nerbo: ci mette un po’ a carburare all’inizio, dove i tempi staccati sono piuttosto lenti, ma poi si riprende nelle zone più originali e innovative della partitura (come nel magnifico parlante di Rigoletto e Sparafucile).

Il cast è eterogeneo: si disimpegnano tutti bene, tranne Monterone di Mauro Corna, dotato di una voce corposa ma completamente fuori controllo; il Duca di Celso Albelo e il Rigoletto di Vladimir Stoyanov sono corretti ma timbricamente non indimenticabili; la Gilda di Jessica Nuccio è soave e trillante come deve essere; la Maddalena di Nino Surguladze è flebile su tutta la tessitura; su tutti lo Sparafucile di Gianluca Buratto, timbrato, rotondo, dal fraseggio nobile e scenicamente in parte. In Cavalleria rusticana e Pagliacci, la direzione dell’americano Christopher Franklin è potente e varia, pronta a delibare le ricchezze armoniche che le partiture (soprattutto quella di Mascagni) mettono a disposizione.

Di nuovo, il cast è eterogeneo: Anna Pirozzi si disimpegna meglio come Nedda che come Santuzza, ruolo per il quale la sua voce, pur estesa e tecnicamente corretta, manca di un po’ di spessore; Rafael Davila, con i suoi acuti faticosi e con un vibrato così labbrato da rasentare la stonatura, delude sia in Turiddu che in Canio; brave Elisabetta Martorana (Lola) e Chiara Fracasso (Lucia); convincente vocalmente e scenicamente il Silvio di Giorgio Caoduro; su tutti, in questo caso, il Tonio di Marco Caria, timbrato, sfogato e scenicamente efficace.