La Siria ieri è tornata in Svizzera, a Losanna. Probabilmente la città è una delle poche cose ad essere cambiata in questo round di negoziati. L’altra è il numero degli invitati: alla due giorni svizzera ci sono solo Usa, Russia, Iran, Qatar, Arabia Saudita, Iraq, Giordania, Egitto e Turchia. Non ci sono europei né siriani, governo o opposizioni (l’Alto Comitato per i Negoziati, interlocutore dall’Occidente sebbene formato da esiliati ormai lontani o sconosciuti al popolo o da salafiti e islamisti vicini all’ex al-Nusra).

Non è cambiato, invece, l’approccio tanto che il segretario di Stato Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov si dicono poco ottimisti e i leader mediorientali non nascondono il fastidio per l’assenza di idee. Sanno che la guerra è globale. Basta guardare a come hanno trascorso le ore precedenti al meeting i presidenti Obama e Putin: lo statunitense si è visto con il consiglio di sicurezza nazionale che sul tavolo ha messo opzioni militari nel caso Mosca non interrompa i raid; il russo ha ratificato l’accordo con Damasco che prevede il dispiegamento a tempo indeterminato delle truppe del Cremlino.

Ieri poco è uscito dal primo giorno di incontri. Di certo c’è il clima con cui ci si è giunti: ad Aleppo il massacro è barbara quotidianità, con morti da entrambe le parti e i quartieri est controllati dalle opposizioni quasi privi di strutture mediche. Ad innalzare il livello della tensione è stato due giorni fa il presidente Assad che ha definito la città «il trampolino» per riprendere l’intero paese: in un’intervista a Komsomolskaya Pradva, ha detto di non avere «altra scelta se non ripulire l’area dai terroristi e rimandarli da dove sono venuti, in Turchia».

Nessun compromesso, dunque. L’altro fronte non si discosta: anche le opposizioni non scendono a patti perché talmente frammentate da avere obiettivi estremamente diversi. E quelle meglio organizzate militarmente – l’ex al-Nusra e i suoi alleati – non brillano certo per ambizioni democratiche.

Impossibile, poi, dimenticare lo Stato Islamico, scusa per l’intervento degli attori esterni ma finito nel dimenticatoio. La Turchia è l’esempio più eclatante: ha invaso il nord della Siria nel silenzio internazionale, sia dello storico alleato Usa, di cui l’operazione ha svelato le tante ipocrisie, che del ritrovato amico russo che ha mollato i kurdi siriani in cambio della fedeltà economica turca.

La giustificazione è l’Isis, ma le attività militari raccontano un’altra storia: secondo l’amministrazione di Rojava, residenti kurdi sono stati cacciati da 50 villaggi, poi rasi al suolo, da Jarabulus ad al-Rai. E ieri l’Els e i turchi si sono spinti verso Dabiq, sempre nel nord di Aleppo. Obiettivo: avvicinarsi dall’alto alla città e impedire l’unità di Rojava.

Non è quindi l’Isis il target che – a sentire le potenze internazionali – pare relegato solo all’Iraq. Ieri si è fatto rivedere a Baghdad, teatro settimanale di attentati: un kamikaze ad un funerale sciita ha ucciso 35 persone. Nelle stesse ore vicino Tikrit un attentatore uccideva 8 poliziotti e a Samarra un commando la famiglia di un capo tribale.

È così che Daesh si prepara alla battaglia per Mosul, colpendo le zone non occupate e stringendo la morsa su quelle che controlla. Proprio a Mosul, l’Isis avrebbe giustiziato 58 miliziani accusati di aver ordito un “golpe”, di voler consegnare la città a Baghdad.

Se confermato, si tratterebbe di un colpo duro alla monolitica macchina islamista che si accompagna ai segni di ribellione che giungono dai residenti-prigionieri di Mosul: sempre più spesso sui muri della città compaiono scritte anti-Isis, che incitano alla resistenza (muqawama in arabo), e aumentano i contatti con l’esterno, via social media, per comunicare le posizioni degli islamisti.