Tamer Nafar (foto di Michele Giorgio)

Cresciuto nell’area della città vecchia di Lod (Lid), tra le orribili espressioni dell’edilizia popolare israeliana degli anni ‘50, nei parchi pubblici privi di erba e coperti di immondizia e tra resti delle antiche costruzioni arabe, Tamer Nafar si innamorò dell’hip-hop un po’ per caso. Si ritrovò immerso nei testi sociali di Public Enemy, Biggie Smalls, Tupac. Assorbì le atmosfere delle aree statunitensi ad elevata criminalità che gli ricordavano i quartieri degradati della sua Lod. Da lì fu breve il passo che portò alla nascita dei Dam, la prima e, ancora oggi, più celebre band hip-hop palestinese. La notorietà e il successo non hanno cambiato più di tanto Tamer. Quando si parla di Lod torna ad essere il giovane rapper che all’inizio della carriera ripeteva «Chi è il terrorista/Tu sei un terrorista/Hai preso tutto ciò che possiedo nella mia terra». Da qualche giorno il leader dei Dam è un portavoce non solo in musica anche in politica della minoranza palestinese (arabo israeliana), circa il 25% degli abitanti della città teatro la scorsa settimana di scontri senza precedenti tra le due popolazioni. Sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco un giovane arabo e da una pietra alla testa un ebreo cinquantenne. Le carcasse annerite di auto e autocarri dati alle fiamme raccontano tre giorni di violenza senza precedenti. Ora nella parte araba della città regna il silenzio, complice lo sciopero generale attuato dai palestinesi in Israele, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

«Ci hanno accusato di aver assaltato le case e gli abitanti ebrei che vivono nei quartieri misti e dimenticano le aggressioni gravissime che abbiamo subito noi per giorni» ci dice Tamer, sotto lo sguardo di amici e conoscenti riuniti davanti alla moschea al Omari e alla chiesta ortodossa. «A Lod – prosegue il rapper – abbiamo visto arrivare dalla Cisgiordania centinaia di coloni israeliani armati che hanno scatenato l’inferno nei rioni arabi. Questi coloni sono ancora qui, con il pretesto di dover difendere la popolazione ebraica e girano armati per queste strade qui intorno, accanto alle nostre case». Tamer ci racconta di discriminazioni, di permessi di costruzione negati ai cittadini arabi, di ampi progetti edilizi destinati solo alla popolazione ebraica e della penetrazione di gruppi della destra religiosa israeliana nei quartieri arabi. A Lod la chiamano «gentrificazione nazionalista». «Le autorità comunali – aggiunge Tamer – hanno demolito circa 300 case (arabe) in questi anni perché prive del permesso edilizio. Ma non ci sono più appartamenti disponibili per gli arabi e molte delle nostre famiglie vivono in condizioni impossibili. Ci spingono fuori dalla città».

 

LOD ISRAELE
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Ghassan Muneir, un attivista locale, annuisce ascoltando il rapper. «Al governo Netanyahu non mi stancherò di ripetere che sono un abitante indigeno di Lod» ci dice «non sono arrivato dagli Usa o dalla Russia pochi anni fa. Ho il diritto di vivere qui» dice perentorio. Lid, ora Lod, era un piccolo centro arabo sulla linea ferroviaria per Gerusalemme. Nei suoi pressi le autorità britanniche, che avevano il mandato sulla Palestina, costruirono un aeroporto diventato lo scalo internazionale «Ben Gurion» di Tel Aviv. Nel 1948 centinaia di abitanti arabi di Lod furono uccisi  migliaia espulsi. «Poco più di 500 restarono in città – prosegue Ghassan – a loro si aggiunsero sfollati palestinesi confinati in piccole aree mentre Lod diveniva ebraica. Siamo discriminati, abbiamo accesso a pochi fondi pubblici, l’affitto delle case è sempre più alto e non c’è lavoro per i nostri giovani. Eppure abbiamo vissuto in pace per decenni con gli ebrei. Poi sono arrivati i religiosi di destra a provocarci ed è cambiato tutto».

In lontananza appaiono due giovani, poco più che adolescenti, con il look tipico dei coloni israeliani. Vengono dalle case abitate dalle famiglie ebree. Si avvicinano e ci chiedono di parlare. «Dovete ascoltare anche le nostre parole» dice uno dei due, Matan, di origine statunitense, «siamo qui per proteggere le famiglie ebree dalla violenza degli arabi, non abbiamo armi, non vogliamo fare del male a nessuno». «Bugiardo» gli grida Fidaa, una ragazza palestinese «le armi le avete eccome, nelle case che dite di voler difendere». «Piuttosto da dove vieni? Spiegalo al giornalista» incalza Fidaa. «Abito in Yehuda e Shomron (la Cisgiordania, ndr) e tornerò lì non appena smetterete di mettere in pericolo gli ebrei» replica il giovane colono. La discussione si accende, si aggiungono altre persone. Qualcuno urla. Poi le due parti si separano. Una pattuglia della polizia passa, osserva cosa accade ma non interviene. Lasciando Lod, attraversiamo la zona nuova ebraica. La vita si svolge come tutti i giorni. Lo sciopero degli arabi è lì, a poche centinaia di metri, ma nessuno sembra interessato a conoscerne i motivi.