Il meteo ce l’ha messa tutta per rovinare la festa e in parte ci è riuscito visto che il tanto atteso debutto dell’edizione 74 del festival del cinema di Locarno ha dovuto tenersi, causa pioggia, al coperto anziché nella celebre piazza Grande. Per fortuna già dal giorno dopo è comparso il sole, timido, ma pur sempre sole che, al contrario che in mezza Italia, a Locarno era molto atteso dopo un bagnatissimo mese di luglio. C’è tuttavia un evento che dà ancora più piacere a chi ama e segue questo festival ed è il ritorno del pubblico. Dopo l’edizione 2020 tenutasi solo online, e quindi con le sale e le strade prive del colorato e cosmopolita mondo che da sempre si muove attorno al festival, da due giorni la città sulla sponda svizzera del lago Maggiore assomiglia un po’ di più alle edizioni pre-pandemia.

SEBBENE gli organizzatori prevedano un calo del 30% delle presenze rispetto a una volta, ha quasi dell’incredibile vedere il via vai di persone fra una sala e l’altra, per le strade, attraverso la piazza, sedute nei bar e nei ristoranti. Non portano più al collo il nastro leopardato al quale era attaccata la tessera degli abbonati e sono rari pure i sacchetti, sempre maculati, che ti davano con l’abbonamento. Quei due simulacri sono rimasti solo come segno distintivo, e ricordo, per gli accreditati stampa e «industry» e, sebbene il simil badge non serva a nulla dal punto di vista pratico, c’è chi continua a indossarlo per abitudine o forse affetto, chissà.

Ora, per le ragioni sanitarie che conosciamo a memoria, si fa tutto online e quindi si deve dipendere dal cellulare per fare ogni cosa, consultare il programma, registrare l’account, scegliere il film, prenotarlo, ricevere il biglietto, entrare in sala e la maggior parte della gente lo fa cercando disperatamente un appoggio wifi perché la Svizzera, a differenza del resto d’Europa, non ha equiparato le tariffe in roaming e quindi per i cittadini UE chiamare o farsi chiamare da qui è un salasso.

TUTTAVIA, non tutti aderiscono volentieri a questa dittatura telematica. È soprattutto la prenotazione a scoraggiare non tanto gli addetti ai lavori, che ormai si sono abituati alle modalità salva covid, ma il pubblico che è sempre stato una delle forze di questo festival un po’ per la sua passione, un po’ perché a Locarno si possono trovare gomito a gomito, non solo nelle sale ma anche in un negozio o al bar, registi e appassionati, attori e spettatori, addetti ai lavori e non. Qui non ha mai preso piede come in altri festival il mito del tappeto rosso perché per chi fa il cinema è facile trovarsi mescolato con chi il cinema lo ama e lo va a vedere.

L’OBBLIGO di prenotazione viene vissuto da molti affezionati come una necessità, ma anche un impedimento «Perché – come ho sentito dire in una conversazione al bar – toglie il piacere di decidere al momento dove andare e con chi. Prima, se qualcuno ti parlava bene di un film potevi cambiare il programma all’istante, o ti inserivi in un gruppo di amici su due piedi, o se un film ti stufava uscivi ed entravi in un’altra sala. Ora devi prevedere tutto. Il cinema mi piace di meno vissuto così, senza improvvisazione».

Sappiamo tutto ciò, eppure tornare in presenza era, è importante perché, nonostante le restrizioni, il grande schermo, il buio della sala, lo spegnersi delle luci possiedono quella potenza visionaria che nessun schermo televisivo o di computer potranno mai sprigionare.

IL CONCORSO internazionale si è aperto con Nebesa del regista serbo Srdjan Dragojevic. Tratto da un racconto degli anni Trenta di Marcel Aymé, narra la vicenda surreale di un profugo, comunista e ateo, che un giorno si ritrova con una luminosissima, e mal sopportata, aureola sulla testa che la moglie, nonostante sia cattolica, tenta di lavargli via con la candeggina e poi inducendolo al peccato. A lei non interessa avere un marito che la pensi allo stesso modo, ma un marito contento di essere come è anche perché si sono sempre trovati bene nelle loro diversità. L’aureola però non se ne andrà, anzi resterà lì ben fissa fino a stravolgere persone e famiglia nel profondo. Nulla tornerà come prima. Società, abitudini e relazioni cambieranno pelle e rapporti di forza.

METAFORA, a volte un po’ troppo didascalica, del conflitto interetnico e religioso che portò allo smembramento della ex Jugoslavia, Nebesa tenta di raccontare con toni da commedia noir il passaggio turbolento da un mondo pagano a uno cristiano dove la speranza nei miracoli è la risposta, spesso vana, ai cambiamenti epocali.