Due anni dopo Non è sogno, Giovanni Cioni torna a Locarno, fuori concorso, con un nuovo stupefacente film. Dal pianeta degli umani, nel quale esplora, trasfigurandola, la frontiera italo-francese tra Ventimiglia e Mentone, è una favola sui generis, un racconto fantastico, un film di fantascienza che narra di migranti, di scienziati, di corpi di animali e di spettri di uomini, di vita e di morte. Un documentario d’invenzione, un film d’archivio lucidamente anacronistico, un saggio lirico e politico sul ruolo del cinema oggi.

Una tappa importante nel percorso di ricerca del regista toscano che sembra ora riepilogare e superare il lavoro sviluppato in tutta la sua precedente filmografia con un film che è, anche, un sistema di ordinate infrazioni alle sue proprie regole. Seguitando il suo cinema di viaggio – sempre nel presente, mai d’attualità – Cioni segue le tracce della rotta dei migranti che tentano di passare il confine tra l’Italia e la Francia lungo la «via della morte». Solo che i migranti sono poco più che spettri, vivono e muoiono nel silenzio e nell’indifferenza, e di loro non si trovano che sparse tracce, resti di un passaggio che non si riesce a cogliere se non come fatto compiuto, un presente inafferrabile e sempre passato. Entra allora la forza trasformatrice della parola narrante e dell’immagine come macchina del tempo e come grimaldello per squadernare sullo schermo le storie che giacciono sepolte nei luoghi, gli strati di tempo che in un presente perfettamente cinematografico, apocalittico, sospeso, collidono provenendo dal passato e dal futuro.

Testimone, viaggiatore, narratore felicemente allucinato, Giovanni Cioni per la prima volta usa la sua propria voce per condurre la danza del film che attraversa spericolatamente uno dei luoghi di tendenza più affascinanti e più rischiosi del cinema di non fiction di questi anni: il lavoro di recupero e ricreazione dei materiali d’archivio.

Se da una parte i frammenti del passato tornano ad animarsi e riprendono la carne di un senso sullo schermo, le nuove osservazioni rapsodiche, ondeggianti, e le parole che Cioni scrive tenendosi in equilibrio tra l’appunto sintetico, l’astrazione poetica e la sublimazione onirica, si mescolano confondendosi le une con le altre, convertendo il mondo intero in archivio di pezzi da riscrivere in una formula combinatoria nuova e aperta, percorribile dallo spettatore secondo traiettorie iperboliche e letture autonome.

La cronaca lineare lascia il posto all’esplorazione tridimensionale dell’immagine-in-movimento e la laconica, stringata prosa poetica che contraddistingue e punteggia fin dagli inizi tutto il cinema di Cioni, si ricongiunge finalmente alla voce del suo autore, supera la fase scritta e trova il suo proprio suono contribuendo alla dimensione concertistica del film.

Come già in precedenza, anche qui il racconto e la riflessione assumono la forma incerta della divagazione, ripercorrendo il passato come sopralluogo immaginifico: in una spazzolatura della Storia in contropelo, gli studi e le sperimentazioni del chirurgo Serge Voronoff, ebreo russo naturalizzato francese, che lavora sulla cura e sul potenziamento del corpo umano attraverso l’impianto di parti del corpo animale trovano una rima ideale con le ossessioni dell’alta borghesia europea e con il superomismo machista mussoliniano, in essi vengono magnificate e a causa loro finiscono nell’oblio insieme al tragico e grottesco eroe che le aveva inventate; i fantasmi dei perenni vacanzieri della costa mediterranea intrappolati nella ripetizione inerte delle immagini del passato si specchiano nella sparizione, nell’evaporazione dei migranti, annichiliti dalle oscure litanie del realismo dell’informazione d’apparato.

Il cinema di Cioni non è la forma chiusa di un’asserzione gettata nel mondo, al contrario, ogni film è una macchina organica e il disegno del processo che l’ha costruita: una macchina organica che non smette di muoversi e cambiare una volta messa in moto dal «montaggio virtuale» (il montaggio digitale, numerico che configura sempre solo la possibilità di un’ipotesi, mai l’irrevocabile univocità di una compiutezza) che ne costituisce la flessibile struttura. Una densa galassia di relazioni stabilite per confronto, scontro, consonanza o remota affinità, una tela mobile di rapporti nella quale per esempio gli sguardi vacui degli esseri umani passati vengono corrisposti da quelli degli occhi degli animali ai quali sembra affidato il punto di vista di questo nuovo film, l’osservazione straniata e straniante della vita non umana che fissa le ombre evanescenti dell’umano, ne illumina l’inconsistenza, ne smaschera l’impermanenza.

Un altro modo di infrangere e superare una regola fondamentale alla base e al centro del lavoro di Cioni artista, autore, narratore: l’incontro con l’altro non è che inseguito in quella che finisce per essere l’inevitabile sconfitta dello scontro con una tragica perdita del mondo. Così quel che in altri film del passato – spesso abitati da fantasmi vaganti, da morti ritornanti, da proiezioni e da evocazioni – era in Cioni lo spirituale evocato dallo spiritistico, qui, invertendo i fattori, diviene lo spiritistico come unica destinazione ammissibile dello spirituale.

Così Dal pianeta degli umani promette di essere una nuova e fondamentale tappa dell’atlante che Giovanni Cioni va tratteggiando da anni, inoltrandosi nell’esplorazione coraggiosa e libera della linea lungo la quale il sogno, la visione e l’immaginazione incontrano l’emozione e vi s’immergono.