La piccola cittadina di Little Rock, in Arkansas, aveva avuto i suoi «15 minuti di celebrità» grazie a un documentario girato negli anni Novanta, dove veniva raccontata la quotidiana carneficina degli scontri tra gang. È nella stessa città che pochi anni dopo si è trasferita la famiglia di Amman Abbasi, il regista pachistano americano che alla Berlinale ha appena presentato, nella selezione di Forum, il suo primo lungometraggio di finzione: Dayveon, intitolato col nome del suo giovane protagonista, un tredicenne che ha appena perso il fratello proprio a causa di una sparatoria tra gang.

Anche lui vive a Little Rock, nella casa della sorella grande e del suo compagno. Un giorno viene assalito da alcuni ragazzi più grandi di lui, e la stessa cosa succede al suo amico: Brayden. Abbasi non ci «dice» perché, non sottolinea i momenti di svolta del suo film con delle spiegazioni, così come possiamo dedurre solo dall’accento strascicato dei ragazzi e degli adulti – una comunità quasi interamente africanamerican – che ci troviamo da qualche parte nel cuore profondo del sud degli Stati uniti.

L’assalto a Dayveon, capiamo però molto presto, non è che un rito di iniziazione: il ragazzo sta per entrare nel mondo dei grandi che da quelle parti significa troppo spesso l’affiliazione con una gang. Perché Dayveon è una storia di formazione – contraltare «sporco» e meno furbo del candidato all’oscar Moonlight – sul passaggio all’età adulta in un orizzonte che sembra vuoto di possibilità, o almeno di possibilità alternative a quelle che sembrano assegnate ai personaggi per nascita.

I protagonisti di Abbasi vengono osservati come in un documentario: sono tutti attori non protagonisti che il regista ha reclutato in larga parte nel corso di una lunga ricerca in un campo «rieducativo» per adolescenti a rischio che hanno già avuto a che fare con il mondo delle gang. Regista, sceneggiatore, montatore, produttore (al fianco tra gli altri di David Gordon Green) e perfino autore delle musiche, Amman Abbasi si mette al fianco del giovane protagonista con affetto e senza invadenza, ma viene penalizzato dalla programmaticitá dei suoi intenti: raccontare come si finisce in una gang, dare forma e sostanza al mondo che incombe sul suo Dayveon, soffocandolo con il maggior realismo possibile.

Così facendo però Abbasi sfiora il quadro sociologico che partendo da alcune premesse – la morte del fratello, la solitudine, la cupezza dello stesso ambiente domestico dove anche durante il giorno filtra a malapena la luce – deve arrivare a a una conclusione obbligata: la spirale di violenza sembra destinata a ripetersi sempre uguale a se stessa.
Per questo i momenti più riusciti del film sono quelli ambientati nel limbo in cui si trovano per buona parte del film Dayveon e Brayden: già avvicinati dalla gang ma ancora liberi di giocare ai videogiochi e andare in bicicletta – anche se nello zaino si nasconde una pistola – reclamati dal mondo dei grandi ma ancora per qualche momento, bambini.