Era altissimo, il più alto, un albero da cui ricavare ospitale ombra, ma anche un faro che indicava la rotta. Aveva un cognome strano, che arricchiva ancor più la sua fisica diversità. Nel 1982 Renato Mambor curò un laboratorio teatrale con il gruppo Trousse a Monterotondo. Era una sfida diffondere il suo verbo in un piccolo paese di provincia, abbandonando la scena romana, i tavolini di Piazza del Popolo dove era stato applaudito, bello come un dio greco e sghembo come un eroe pasoliniano. Erano passati vent’anni, ma di lui ancora si ricordavano i titoli sulle pagine dei rotocalchi, le conquiste amorose nella Roma dei primi anni 60 firmata Fellini: il regista romagnolo l’aveva scoperto a un distributore di benzina e lo aveva chiamato a recitare nella Dolce vita.Per una decina d’anni, interpretò anche piccole parti in film diretti da registi come Damiani, Brusati e Fulci.

Ma era rimasta sempre l’arte al centro della sua ricerca: dopo la prima mostra alla Galleria Sisti nel 1959 con Schifano e Tacchi, aveva lasciato impronte di cuori in lunghissimi Itinerari rullati, su viali alberati e pareti di gallerie. Alla fine degli anni 60, arrivò la crisi e la scoperta del teatro. Il percorso accanto a Patrizia, la compagna con cui ha diviso il resto della vita. La prima lezione, a Monterotondo, in una grande sala spoglia, deposito accidentale di libri, fu folgorante: un leggìo e la sua voce che scandiva per ogni cosa il suo doppio iconico. «Un campo di girasoli è Van Gogh, una bottiglia è Morandi, un’onda è Hokusai….».

Il laboratorio di Renato era fatto di poche parole, tanti silenzi, un ascolto profondo: il suo teatro era dare la parola agli altri, farli aprire, accoglierli. Nessuno era escluso. Andò avanti per mesi. A volte, in un angolo di quella sala, avvolto in un grosso cappotto beige, trovavi un corpulento Tano Festa (uno degli artisti con cui aveva condiviso la stagione del Pop romano) che sonnecchiava. Stravaccato su una sedia, la bottiglia accanto ai piedi, Festa portava i segni di una battaglia, quella con la cinica realtà che tutti gli artisti rischiano sempre di perdere e che Renato non ha mai cessato di combattere, anche e soprattutto abbracciando la fede buddista. Una battaglia che ha vinto incontrando l’altro da sé, coniugando attore/artista e spettatore, assottigliando distanze, sposando le differenze.

C’è in tutto questo un grande senso di civiltà, uno sguardo democratico, un farsi da parte che, come scrive Bonito Oliva, «discende dal rifiuto di considerare l’artista come un individuo privilegiato». Che ha fatto sì che tutto quello che gli era intorno, e anche noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, come richiamato dalle note di un pifferaio magico, venisse risucchiato dentro il mondo incantato dell’arte, della sua arte.