Tra i festival italiani di spettacolo, quello «delle Colline torinesi» (meglio dichiarato ormai come «Torino Creazione contemporanea») è, alla sua ventiduesima edizione, uno degli appuntamenti più importanti dell’estate teatrale. Discreto e compatto, porta un pubblico affezionato quanto esigente nei diversi spazi della città, offrendo uno spettro davvero ampio e non demagogico di quanto produca oggi la creatività artistica delle diverse generazioni artistiche.

Così che nei giorni scorsi un successo molto caloroso hanno riscosso le tedesche She She Pop, un collettivo di donne di età adulta che ad ogni spettacolo pone quesiti e interrogativi su qualche aspetto fondante della vita civile o comunitaria. E senza iattanza, ma neanche falsi pudori, accompagna lo spettatore ad allargare i propri orizzonti. Non perché prima non ne fosse a conoscenza, ma perché lo spettacolo gli fornisce elementi forse nuovi per approfondire quella «sostanza» e la sua cornice. È esattamente quello che succede con 50 grades of shame, il cui argomento è semplicemente il sesso, e la nuvola di regole e divieti che lo indirizza e lo costringe nei pubblici comportamenti. Le She She Pop si pongono come un simpatico quanto indefettibile «collegio di professori» che si incaricano di aprire nuovi e più fondati argomenti ai loro spettatori/allievi. Con le tre fondatrici del gruppo (la quarta assente per infortunio) ci sono presenze diverse, compresi diversi uomini (nella precedente apparizione italiana avevano portato in scena le loro madri). Ognuno assolve a un ruolo o a un argomento ben identificato. E c’è anche, naturalmente, un libro di testo, niente meno che Risveglio di primavera di Wedekind, che ha suggestionato lungo un secolo diverse avanguardie. In forma distesa e colloquiale (in realtà puntuta e direzionata) scorrono esempi e riflessioni, evocazioni e interpretazioni, di quella «vergogna» che si va a diradare. Ma la voglia di partecipare (di artisti e pubblico) e l’ironia saggia delle She She Pop non è mai didascalica. Anzi piuttosto divertita, mentre la teatralità dell’indagine si moltiplica e si ispessisce grazie alla musica, e a schermi e tecnologie, che trasformano e reinventano immagini e parole. Le fantastiche signore berlinesi, con la loro aria scevra e «sincera», danno un grande teatro contemporaneo, e forse anche qualche suggerimento utile a chi vuole intendere.

Di tutt’altro genere (ma forse neanche troppo) è la donna che, citando Euripide, ci racconta il drammaturgo Gary Owen, Ifigenia in Cardiff. In realtà è grazie soprattutto all’interprete Roberta Caronia (e alla regia costruitale attorno da Valter Malosti) che quella creatura di una qualche periferia gallese, colpisce lo spettatore in profondità. Una storia «qualsiasi» di disperazione tra alcol, droga, sesso e miseria, che Owen carica forse eccessivamente per presentare la ragazza in un linguaggio sempre più degradato, ma che si riscatta, e vola alto, lungo il racconto di un casuale innamoramento destinato ovviamente a non avere happy end. Caronia è bravissima, le sue parole mettono i brividi e squarciano il sipario sulla vita reale.