Dopo che le forze di sicurezza hanno rinunciato a cacciarli da piazza dell’Indipendenza e dai due palazzi occupati, quello del municipio e quello dei sindacati, i manifestanti stanno rinsaldando le posizioni (in piazza sono state ritirate su le barricate) e preparandosi a un’altra grossa adunata contro Yanukovich. Malgrado il freddo, che non fa sconti. Ci sarebbero 70mila persone in arrivo dalla regioni occidentali del paese: quelle storicamente più sensibili all’integrazione europea (che sia intesa come destino o come semplice opportunità); quelle da dove tradizionalmente arriva il grosso dei voti dei dell’opposizione, che intanto ha annunciato di non avere intenzione di negoziare una soluzione alla crisi con il presidente Yanukovich e il primo ministro Azarov.

Se sulla piazza la situazione sembra ristagnare, fatti salvi i picchetti non troppo rumorosi che i sostenitori di Yanukovich stanno tenendo davanti al Parlamento, a livello internazionale c’è un fermento cinetico.

Stati Uniti e Unione europea hanno inscenato una sorta di gioco delle parti. Washington, a dirla tutta abbastanza assente in questa partita, mostra l’hard power. Nei giorni scorsi il segretario di stato John Kerry s’è detto «disgustato» dal dispiegamento della polizia e degli apparati di sicurezza nel cuore di Kiev. Nelle ultime ore, invece, è filtrata la notizia di possibili sanzioni nei confronti delle autorità ucraine. Bruxelles al contrario sfodera il soft power e sembrerebbe aver convinto Yanukovich a riaprire il dialogo sugli Accordi di associazione e sul libero scambio, che il 21 novembre – causa scatenante della protesta – lo stesso capo di stato ucraino aveva respinto. È chiaro che dovrà esserci qualche variazione sul tema. Forse la scarcerazione della Tymoshenko potrebbe essere svincolata dal perfezionamento delle intese. Quasi sicuramente l’Ue dovrà includere nel pacchetto incentivi immediati e misure robuste per scongiurare la crisi finanziaria che l’Ucraina sta vivendo.

Del resto Yanukovich è sempre stato chiaro, su questo, facendo presente che servono soldi – una ventina di miliardi di euro – e che servono al più presto. Le cronache riportano che qualcosa, sotto questo punto di vista, si sta già muovendo. Il Parlamento europeo ha approvato una mozione in cui chiede alla Commissione di avviare rapidamente l’alleggerimento delle regole sui visti nei confronti dei cittadini ucraini. Mentre il Fondo monetario internazionale, d’intesa con l’Ue, starebbe mettendo a punto uno schema che permetta a Yanukovich di avere liquidità senza chiedere in cambio riforme troppo costose, revisionando la precedente linea, che Kiev aveva bocciato. Tutto questo prenderà dei mesi. Il governo dell’ex repubblica sovietica dice che le intese con l’Ue potrebbero essere sancite in primavera, quando si terrà il vertice tra Ue e Ucraina. È chiaro che l’Ucraina sta prendendo tempo. L’obiettivo è convincere i russi, a partire dalla bilaterale di martedì a Mosca, che gli eventuali accordi con l’Europa non scalfiscono i loro interessi.

Il Cremlino li ha sempre visti come alternativi all’Unione doganale, pilastro della futura integrazione eurasiatica.

Se l’Ucraina sceglie l’occidente, la Russia taglia i ponti, con tutte le conseguenze politiche, energetiche e commerciali che ne conseguirebbero: questo il messaggio che Putin ha più volte diffuso. A volte con registro minaccioso. Altre, come nel caso del discorso alla nazione tenuto ieri, senza ruggire. È evidente che il vero nodo passa da qui. L’Ucraina e l’Europa devono negoziare con Mosca, trovare una sintesi e trasformare il terreno di scontro in punto d’incontro. Sarà molto, molto difficile trattare. Intanto, occhi puntati sulla piazza: si preannunciano altre giornate molto tese, lì a Kiev.