Ieri in Afghanistan è accaduto qualcosa di inedito, di sorprendente. Una folla di decine di migliaia di persone ha manifestato a Kabul, trasportando le salme di 7 persone uccise, parzialmente decapitate tra il 6 e l’8 novembre nella provincia di Zabul, un mese dopo che erano state prese in ostaggio mentre viaggiavano lungo la rotta Ghazni-Zabul.

Difficile dire chi siano i colpevoli: c’è chi parla dei membri dello Stato islamico in Afghanistan, chi dei Talebani. Rimangono le 7 salme: tutti membri della comunità degli hazara, la minoranza sciita storicamente oppressa e perseguitata. E rimane una manifestazione talmente ampia da aver sorpreso un po’ tutti. Comprese le forze di sicurezza, che hanno sparato (in aria dicono i portavoce del governo), quando alcuni manifestanti avevano oltrepassato le mura dell’Arg, il palazzo presidenziale: 10 i feriti.

Ridurre tutto ai 10 feriti sarebbe ingiusto: la manifestazione, partita dal quartiere di Kot-e Sangi, ha attraversato la città per arrivare al centro, ed è stata prevalentemente pacifica. Storica nella sua ampiezza, ha raccolto le adesioni di afghani di ogni provenienza, anche se lo zoccolo duro era quello degli hazara. Con il tentativo dello Stato islamico (o di gruppi che ad esso si richiamano strumentalmente) di espandere la propria influenza nel paese, c’è chi teme che il settarismo possa tornare a mietere vittime. Colpendo soprattutto gli hazara.
La barbara uccisione di Zabul non è la prima, ma è quella che ha fatto più scalpore. E ha dato il via a una serie di manifestazioni di protesta che hanno coinvolto molte città afghane, da Ghazni a Mazar-e-Sharif, nel nord, dove si tengono veglie e preghiere, passando per Zabul, e arrivando appunto a Kabul.

Nella capitale, ieri, si è condensata tutta la rabbia che gli hazara e le altre comunità afghane hanno maturato nei confronti del governo di unità nazionale del presidente Ashraf Ghani e del quasi “primo ministro” Abdullah Abdullah. Al potere dal settembre 2014, sono accusati di non saper proteggere la popolazione, di non riuscire a garantire la sicurezza, di preoccuparsi più delle proprie scaramucce che del benessere del paese.

«L’inazione è di per sé un crimine», recitava uno degli striscioni affissi sulle mura esterne dell’Arg. Ghani, consapevole che la situazione rischia di diventare esplosiva, compromettendo ulteriormente la già fragile tenuta del suo governo, ha cercato di sedare gli animi. Con un appello alla tv in cui ha chiesto calma e promesso «vendetta e giustizia» per le 7 vittime. E accogliendo all’Arg una delegazione in rappresentanza dei manifestanti, inclusi i parenti delle vittime.

L’incontro tra i membri della delegazione e gli esponenti del governo – oltre a Ghani e Abdullah anche i ministri dell’Interno e della Difesa – è stato trasmesso in diretta tv. Un’apertura dovuta, da parte di Ghani, e un punto a favore dei manifestanti. Le cui richieste sono però considerate eccessive da qualcuno: pare che chiedano tra l’altro l’istituzione di una sezione speciale dell’esercito con il compito di proteggere specificamente la comunità hazara. Un precedente che sarebbe rischioso in un paese in cui l’eredità dei conflitti intestini è ancora forte.

Ma il braccio di ferro è iniziato. E proseguirà oltre la sua rappresentazione mediatica. E oltre la questione, pur rilevante, delle discriminazioni a danno degli hazara. La posta in gioco infatti riguarda tutto il paese, tutti gli afghani. Se il governo non sarà in grado di garantire, presto, maggiore sicurezza, le manifestazioni continueranno. Sui social media locali ieri c’è chi ha parlato di una nuova piazza Tahrir.

Un paragone frettoloso, fuori luogo. Ma c’è da scommettere che la faccenda non finisca qui. Anche perché nel fronte governativo qualcuno, anziché rispondere alle legittime richieste dei manifestanti, li accusa di essersi fatti strumentalizzare politicamente. Gettando benzina sul fuoco.

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