L’Afghanistan sarà in pace per tre giorni, dal 12 al 14 giugno, in coincidenza con la fine del Ramadan. La tregua è stata annunciata ieri dai Talebani, con una direttiva che porta la firma del leader, il mawlawi Haibatullah Akhunzada. Una risposta indiretta all’annuncio a sorpresa con cui, giovedì scorso, il presidente Ashraf Ghani aveva comunicato un cessate il fuoco unilaterale di 8 giorni, dal 12 giugno, al quale hanno aderito anche i militari Usa.

Pur senza citare la mossa dell’antagonista Ghani, il leader degli studenti coranici ieri ha invitato tutti i mujahedin ad «astenersi da qualunque operazione offensiva» contro «gli oppositori interni», i membri delle forze di sicurezza afghane fin qui chiamati «fantocci degli stranieri infedeli».

Il cambio di registro segnala una novità storica: dal rovesciamento del loro governo, nel 2001, è la prima volta che i Talebani annunciano una tregua. È una novità clamorosa, che va accolta con favore, ma anche con prudenza.
Se è positivo che il governo di Kabul e i turbanti neri riconoscano la crescente richiesta di pace della società, rimangono comunque molte incognite.

La prima riguarda la capacità di Haibatullah Akhunzada di far rispettare la tregua su tutto il territorio controllato dai Talebani. Il suo è un movimento policentrico, diviso al proprio interno, e non tutti concordano con la sua linea improntata al pragmatismo e favorevole al negoziato futuro. Haibatullah ha faticato molto a consolidare la propria leadership e ancora oggi sconta forti resistenze interne, soprattutto dall’area che ruota intorno a uno dei suoi due vice, Sirajuddin Haqqani, a capo dell’omonima rete del terrore.

Se Haibatullah non avesse la forza e l’autorevolezza necessarie per far rispettare la tregua, il movimento ne uscirebbe ulteriormente frammentato e la prospettiva di pace indebolita. In caso contrario, la tregua potrebbe aprire le porte a discussioni sostanziali sul negoziato, che va costruito attraverso concessioni reciproche che favoriscano la fiducia, ora ai minimi termini.

I Talebani lanciano segnali chiari: dopo l’annuncio di qualche giorno fa dell’amnistia per i funzionari e soldati che disertino i ranghi, con la direttiva di ieri dicono di essere disposti a rilasciare i detenuti dalle prigioni, e comunque di consentire loro di incontrare i famigliari per la fine del Ramadan.

Sono segnali rivolti alla popolazione, per conquistarne «il cuore e le menti», ma anche al governo di Ghani, per dimostrare che c’è margine di discussione. A condizione però che si affronti la questione più importante: la presenza delle truppe straniere.

Il secondo dei cinque punti della direttiva recita che «gli occupanti stranieri sono esclusi dall’ordine di tregua. Continuate le operazioni contro di loro e colpiteli dovunque sia possibile». Una clausola importante, che ricorda come la partita afghana non sia soltanto domestica, tra il governo di Kabul e i Talebani, ma regionale e internazionale.

Non è un caso che, sul fronte opposto, il cessate il fuoco annunciato da Ghani riguardi i Talebani ma non la provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico, né al-Qaeda. Dal 12 al 14 giugno ci potrebbe essere dunque una pace diffusa ma parziale. Per una pace completa occorre ancora molto, ma è sempre più reclamata dalla popolazione.

Un gruppo di «marciatori per la pace» sta percorrendo a piedi la lunga strada che dalla provincia meridionale dell’Helmand conduce alla capitale. Arriveranno a Kabul proprio nei giorni della tregua, con i loro cartelli che invocano «pace duratura».