L’evacuazione di Ahrar al-Sham è iniziata: ieri i primi miliziani del gruppo salafita hanno lasciato Harasta, cittadina nella zona occidentale di Ghouta est, dopo l’accordo raggiunto mercoledì con il governo siriano.

In serata avevano lasciato il sobborgo damasceno 1.580 persone (413 miliziani e quasi 1.200 civili, loro familiari). Al trasferimento si è aggiunto uno scambio di 18 prigionieri, di cui 13 detenuti dai salafiti.

Secondo la tv siriana, sotto la supervisione di Onu e Croce Rossa sono stati fatti salire su 40 autobus diretti a Idlib, provincia nel nord-ovest della Siria, da anni «contenitore» delle opposizioni islamiste: ogni evacuazione finora siglata ha spinto altre migliaia di salafiti, jihadisti, qaedisti in quella che è ormai a tutti gli effetti un’enclave gestita dai gruppi religiosi radicali.

Resteranno dentro, come annunciato mercoledì da Munther Fares, portavoce di Ahrar al-Sham, i civili che non intendono lasciare le proprie case, circa 18mila persone, «sotto la garanzia russa e governativa».

Si restringono così i pezzi di territorio in mano alle opposizioni: i governativi controllano ormai l’80% dell’enclave e hanno separato la principale città (Douma, a nord) dalla zona sud. Resistono Jaysh al-Islam, il gruppo più numeroso, di ispirazione salafita e di stanza a Douma; Faylaq al-Rahman, fazione islamista legata all’Esercito libero siriano, che controlla Arbin e Zamalka; e l’ex al-Nusra, formazione qaedista che le altre milizie hanno tentato di utilizzare come merce di scambio per un cessate il fuoco, senza successo.

Quello siglato nella Ghouta orientale due giorni fa, mediato dalla Russia, è dunque il primo accordo tra Damasco e un’opposizione a cinque anni dall’inizio dell’assedio del sobborgo.

Dal 2013 l’enclave è stata ridotta alla fame e alla sete, circondata dall’esercito siriano fuori e controllata dalle milizie islamiste dentro. Fino all’ampia campagna militare lanciata a metà febbraio da Damasco, nonostante – insieme a Deraa e Quneitra a sud, Idlib e parti della provincia di Homs – rientri nelle de-escalation zone previste dall’accordo di Astana tra Turchia, Russia e Iran. In oltre un mese di scontri, raid aerei, colpi di artiglieria jihadisti, sono morte 1.250 persone (18 ieri in raid governativi e 13 per i missili delle opposizioni), 5.300 i feriti, per la maggioranza civili. Senza contare le vittime al di fuori dei confini serrati del sobborgo, a causa dei razzi islamisti.

Ma a Idlib non sono diretti solo miliziani. Secondo Human Rights Watch, la Turchia sta deportando migliaia di rifugiati nella provincia, coloro che negli ultimi mesi (su pressione delle operazioni militare turche, ultima quella di Afrin, e dei raid governativi su Idlib), sono fuggiti verso il confine nord per venir «accolti» dal fuoco della gendarmeria di Ankara (decine i morti accertati). I richiedenti asilo ntercettati – scrive Hrw – sono stati «deportati sommariamente nel governatorato di Idlib, devastato dalla guerra».

Dalla frontiera ormai non si passa più: l’iniziale politica delle porte aperte, che ha condotto in territorio turco 3,5 milioni di siriani, è stata sostituita dalla chiusura dei confini – anche a seguito delle tensioni interne, con la stragrande maggioranza dei cittadini turchi contrari all’accoglienza ad oltranza – attraverso l’esercito e la costruzione di un muro di 822 km, di cui 800 terminati a dicembre.