Dopo una settimana di proteste intense, con momenti di tensione e di grande attesa, Hong Kong sembra tornare, via via, alla sua consueta normalità, fatta di commercio e finanza. Hanno riaperto gli uffici pubblici e non ci sono state ostruzioni o blocchi da parte degli studenti, che da parte loro hanno cominciato ad abbandonare i presidi. Dopo i raduni di migliaia di persone dei giorni scorsi, la stanchezza e per certi versi anche il blocco della trattativa con il governo durante il week end, ha finito per fiaccare molti dei manifestanti. Il dato politico più significativo è arrivato ieri, quando gli studenti avevano cominciato ormai a mollare la presa. Il governo e i leader della protesta hanno annunciato – ieri pomeriggio – un nuovo round di colloqui.

Benché ci siano spazi di manovra molto esigui, Leung, il chief executive di Hong Kong, ha deciso di riconoscere negli studenti gli interlocutori per un negoziato. «Speriamo in un dialogo amichevole e mutualmente accettabile», ha dichiarato il sottosegretario agli Affari costituzionali, Lau Kong Wa, aggiungendo che vi sono stati «buoni progressi» nell’ambito degli incontri preparatori per l’apertura formale del dialogo. «Abbiamo convenuto su tre principi – ha detto Lau – il primo è che vi sarà più di un incontro, il secondo è che governo e studenti si troveranno su un piano di parità, il terzo è che, se si troverà un consenso, il governo eseguirà le decisioni».

La cosa più interessante è che i dialoghi dovrebbero essere aperti al pubblico, una bella novità per una democrazia sui generis come quella di Hong Kong. Il dato politico più eclatante dunque è questo, ma nel sottobosco della protesta aleggia anche un po’ di malumore. La sensazione è che sia stata sprecata un’ottima occasione. Una mobilitazione importante, che ha portato migliaia di persone in piazza, è sembrata mancare proprio nella sua propositività politica. Una debolezza ben sfruttata dal «lupo» Leung, abbastanza esperto da sapere che il suo destino politico era appeso al futuro di queste proteste.
Dalla Cina – nel frattempo – la considerazione degli avvenimenti non è cambiata nel corso di questa settimana. Secondo il Quotidiano del Popolo, giornale ufficiale del Partito Comunista cinese, le manifestazioni di Hong Kong, farebbero in realtà «arretrare la democrazia». In un editoriale, il quotidiano ha scritto che «un principio fondamentale della democrazia vuole che una piccola minoranza non abbia il diritto di violare in un sol colpo l’ interesse generale e lo spazio pubblico, impiegando dei metodi illegali».

E in questo momento, probabilmente, le analisi più interessanti sono quelle che verranno effettuate proprio a Pechino. Contrariamente a quanto sostenuto da molti media, i fatti di Hong Kong non avranno riverberi interni, ma finiranno per pesare e non poco su alcune situazioni periferiche di grande importanza per la Cina, prime fra tutti quella di Taiwan, associata da molti analisti a Hong Kong. Lo sforzo di riunire l’isola al paese, come specifica il New York Times, ha già incontrato una crescente resistenza tra i 23 milioni di abitanti dell’isola e «si è cristallizzato la scorsa primavera, quando alcuni attivisti hanno occupato il parlamento di Taiwan per quasi un mese, per protestare contro un accordo commerciale con la Cina. Gli oppositori hanno detto che il provvedimento, sostenuto da Ma (il primo ministro ndr) e dal Kuomintang, avrebbe dato a Pechino troppa influenza sull’economia di Taiwan». Anche a Taipei si è trovato un nome spendibile sul mercato della solidarietà occidentale. Agli «ombrelli» di Hong Kong, a Taiwan avevano risposto «i girasoli».

E il «Movimento dei girasoli» è riuscito, per ora, a fermare il disegno di legge. «In una mossa che ha sbalordito molte persone a Taiwan, ha scritto il New York Times, il presidente cinese, Xi Jinping, il mese scorso ha ribadito la volontà di Pechino di perseguire la politica di un paese, due sistemi anche per Taiwan». Jiho Chang, uno dei leader del «Movimento dei girasoli», ha detto alla stampa americana che il rifiuto di dare ai residenti di Hong Kong il diritto di eleggere liberamente il loro capo aveva finalmente messo a riposo l’idea che Taiwan e Pechino, un giorno, potrebbero riunirsi sotto l’etichetta di «un paese, due sistemi». «Sono sicuro che la Cina avrebbe infranto le promesse su qualsiasi cosa, ha detto, la Cina afferma di volerci riavvicinare, ma con i fatti di Hong Kong, è riuscita solo a spingerci più lontano». Nonostante i flussi economici tra le due parti dello stretto siano sempre più rilevanti.