Secondo i rappresentanti di Occupy Central, ieri a Hong Kong ci sarebbero state almeno 50mila persone in piazza. Ci sono stati scontri con la polizia, che ha usato lacrimogeni e spray al peperoncino, alcuni arresti (36 persone sono state poi rilasciate). Pechino, ad ora, non ha risposto.

Innanzitutto, i motivi della protesta: da una settimana sono in corso manifestazioni di studenti, per richiedere sostanzialmente che nel 2017 il «chief executive», il primo ministro dell’ex colonia, possa essere eletto con metodi democratici. Su questo argomento, nei mesi scorsi, era stato anche indetto un referendum informale, per deliberare la forma attraverso la quale eleggere il rappresentante. Pechino ha tenuto duro, ribadendo la sua teoria di «un paese, due sistemi», che tradotto nella pratica significa che a Hong Kong una formula «simile» alla democrazia basta e avanza. Ovvero, il primo ministro continuerà ad essere eletto da un comitato di grandi elettori, in gran parte controllato da Pechino. Il gesto simbolico di un’elezione, per il Pcc è sufficiente. Per molti studenti e attivisti di Hong Kong, no.

Ma naturalmente c’è dell’altro. Negli anni scorsi Hong Kong ha vissuto un momento economico particolare: Pechino ha spinto su Shanghai e l’isolotto di Pudong come hub finanziario nazionale, finendo per calpestare i piedi proprio agli affari di Hong Kong. La comunità business dell’ex colonia si è preoccupata, ma ha capito fin da subito che perdere il treno cinese sarebbe troppo rischioso. Tanto vale, dunque, accettare il sistema politico imposto da Pechino, purché si possano continuare a fare affari. Hanno patito i lavoratori: non a caso gli addetti portuali, ad esempio, entrarono in mobilitazione.

Oltre alla democrazia, quindi, la partita è ben più ampia. Questo ha finito per creare situazioni paradossali, piuttosto tipiche dell’isola: la comunità finanziaria non ha appoggiato Occupy Central, temendo una reazione troppo dura da parte di Pechino. E ieri, perfino gli organizzatori delle proteste, sono apparsi in difficoltà di fronte alla manifestazione, come se fosse sfuggita di mano. Tanto che hanno annunciato ufficialmente di aver «rinviato» le azioni di disobbedienza civile previste. La tensione è altissima, la polizia di Hong Kong in alcuni casi è intervenuta, in altri ha addirittura rimosso alcune barriere, per consentire il passaggio di una massa di manifestanti che nelle ore serali aumentava a vista d’occhio.

Alle richieste di democrazia di studenti e attivisti, infatti, si affianca un sentimento anti cinese che negli ultimi anni è tracimata in accuse pesanti tra «continentali», i cinesi, e gli abitanti dell’ex colonia. È ipotizzabile che anche lo spirito di molti appartententi alla polizia, alla fin fine, sia fondamentalmente anti cinese. A Hong Kong si respira in modo evidente la volontà di considerarsi diversi dai cinesi, di rimarcare profonde differenze, alcune delle quali storidscono la superficialità occidentale. Ad esempio il fatto di sentirsi «più cinesi dei cinesi», avendo mantenute intatte tradizioni smembrate in Cina (come ad esempio i caratteri tradizionali). Sentimenti che uniscono, in questo caso, Hong Kong all’altro grande problema «esterno» di Pechino, ovvero Taiwan.

Pechino ha fatto sapere il proprio pensiero, per ora, solo attraverso alcuni commenti sui media ufficiali. Il Global Times ha rilasciato un editoriale nel quale si accusa apertamente Washington di ingerenze negli affari interni cinesi, a seguito della scoperta di incontri e dialoghi tra funzionari americani e rappresentanti di Occupy. Niente di più facile: gli Usa da sempre lavorano ai fianchi la Cina sul tema dei diritti umani e della democrazia e Hong Kong permette abili manovre, proprio grazie alle possibilità che il «sistema misto» permette. Quando ci fu il referendum informale e vennero annunciate manifestazioni, la Cina fece capire che non avrebbe esitato a spedire i propri militari per tenere sotto controllo la situazione. Una minaccia che i rappresentanti di Occupy ricordano; forse, anche per questo motivo, ieri hanno provato a calmare i propri attivisti.

E mentre Hong Kong affronta una protesta come non si vedeva da tempo (ci sarà da capire se la componenente sociale dei lavoratori si unirà alle proteste) in Cina si discute di militarizzazione della polizia. Una sorta di minaccia incombente sull’ex colonia, qualora le cose dovessere prendere una piega definitivamente poco gradita a Pechino.