«Vergognatevi sporchi poliziotti». È il coro intonato ieri mattina da centinaia di manifestanti davanti al quartier generale delle forze di polizia nel distretto di Wan Chai, tappa conclusiva dell’ennesima giornata di proteste contro la controversa proposta di legge che, se approvata, permetterebbe al governo locale di consegnare i sospettati a tutti quei paesi con cui Hong Kong non ha ancora accordi formali di estradizione. Quindi anche la Cina, dove gli organi giudiziari sono controllati dal Partito comunista.

Il provvedimento è stato sospeso sabato scorso, la leader locale Carrie Lam – vera promotrice dell’emendamento – ha chiesto ripetutamente scusa per aver causato «controversie e dispute nella società, provocando delusione e dolore tra la gente», ma la tardiva inversione a U non sembra aver placato lo sdegno dei cittadini per il modo in cui il governo locale ha gestito le rimostranze popolari, culminate il 12 giugno in scontri violenti con le forze dell’ordine.

Cominciate nella mattina con un pacifico sit-in davanti al Consiglio legislativo, le proteste di ieri sono giunte in risposta al silenzio dell’amministrazione Lam davanti alle richieste dei manifestanti. Mentre – come precisato dalla stessa chief executive – la legge decadrà automaticamente al termine dell’attuale legislatura (nel 2020) e non verrà reintrodotta se non con il pieno consenso dell’opinione pubblica, gli organizzatori delle proteste hanno escluso una resa fintanto che la leader non darà le dimissioni, la proposta non sarà completamente ritirata e il governo non avvierà indagini sulla condotta degli agenti durante la repressione dei disordini.

 

Hong Kong, 21 giuegno 2019 (Afp)

 

Circa una ventina di persone sono ancora in stato di detenzione, alcune delle quali accusate di “rivolta”, termine con cui l’establishment hongkonghese ha inizialmente bollato le manifestazioni.
«Ci sentiamo impotenti e non sappiamo come indurre il governo a soddisfare le nostre necessità», spiega al New York Times uno dei partecipanti rigorosamente vestito di nero e con il viso coperto da una mascherina, la “divisa” indossata dalla maggior parte dei manifestanti, quasi tutti giovani liceali e studenti universitari.

Salvo disagi per la viabilità nei quartieri di Admiralty e Wan Chai, le proteste si sono sono protratte fino a tarda sera senza particolari incidenti. In mattinata, il segretario alla Giustizia Teresa Cheng ha rilasciato un comunicato, diventando il terzo funzionario dopo Lam e il capo della Sicurezza, John Lee, a fare mea culpa. Letteralmente: «Promettiamo di adottare un atteggiamento molto sincero e umile nell’accettare le critiche e apportare miglioramenti al servizio del pubblico». Parole a vuoto.

Tornato sul campo di battaglia dopo un mese di detenzione, l’ex leader degli Ombrelli Joshua Wong ha invitato la popolazione a scendere nuovamente in strada il prossimo 26 giugno. La manifestazione avrà lo scopo conclamato di umiliare Pechino alla vigilia del vertice del G20, che comincerà due giorni dopo a Osaka. Salvo imprevisti, il summit dovrebbe ospitare l’atteso incontro tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping propedeutico alla sospensione di nuove tariffe americane. E, infatti, se buona parte dello sdegno popolare è ormai diretto contro l’amministrazione locale, le tensioni con la mainland continuano a covare sotto le ceneri. Criticando la crescente ingerenza di Pechino, uno striscione esposto dai dimostranti ricorda come «Hong Kong non è la Cina». Eppure ci assomiglia sempre di più.

Mentre i manifestanti accerchiavano i palazzi del potere, all’aeroporto internazionale Albert del Rosario, ex ministro degli Esteri delle Filippine, si vedeva negare l’ingresso nell’ex colonia britannica. Il diplomatico è uno dei più agguerriti oppositori alle rivendicazioni del gigante asiatico sulle isole del Mar cinese meridionale contese con Manila.