La «legalità» non è il concetto chiave, fondante, della comunità umana che anima Mong Kog, quartiere di Hong Kong che si affaccia su Nathan Road, nota via dello shopping, nel pieno di Kowloon ovest. È uno dei primi posti dove finiscono tanti turisti che non possono permettersi il lusso degli alberghi costosi di Central, o di zone più «bene» di Hong Kong.

Sulle strade di Mong Kok vive una fauna di sottoproletariato locale, cinese, straniero (tanti i pakistani e gli africani), poco interessata ai massimi sistemi e decisamente concentrata a sbancare il lunario, a gestire le «attività», come amano dire i cinesi, in corso. Gli alberghi di Mong Kok – dove finiscono molti degli stranieri che vivono in Cina e arrivano nell’ex colonia per rinnovare il visto – sono piccoli e luridi tuguri, spesso senza finestre, ma utili e funzionanti (hanno tutti il wifi, gratis). Costano poco e fino a poco tempo fa, consentivano il rinnovo dei visti cinesi, sfruttando le «grey zone» del sistema. Per le strade c’è il commercio di qualsiasi cosa sia commerciabile: venditori di orologi, vestiti su misura, erba, fumo, donne, massaggi. Mong Kok è il centro del malaffare di Hong Kong, su cui pesa la presenza delle triadi locali e di quelle cinesi.

É un luogo nel quale anche i poliziotti se ne stanno al loro posto. Come ha spiegato alcuni giorni fa alla Reuters, un agente di Hong Kong, «quello che mi preoccupa è proprio la parte ovest di Kowloon, dove agitatori, elementi delle triadi potrebbero creare problemi». Proviene da questo quartiere la massa di persone, unite a «manifestanti pro Pechino», che ieri ha provocato quanto nessuno – almeno dalle nostre parti – si aspettava. Un’aggressione ai ragazzi, per lo più giovani studenti, che nei giorni scorsi hanno occupato le strade e le piazze dell’ex colonia britannica. Ieri si è arrivati alle mani, con botte, calci, spintoni. I ragazzi di Occupy presenti a Mong Kok hanno dovuto addirittura ricorrere all’aiuto della polizia, per sfuggire agli aggressori.

Le foto e i video testimoniano due cose: da un lato giovani insanguinati, in chiara difficoltà di fronte alla violenza, dall’altro gli aggressori, una composizione varia, su cui apparivano come «controllori» persone in disparte, impegnate a telefonare, fotografare, parlottare tra di loro. Non sarebbe neppure da escludere una forte presenza di poliziotti o malavitosi cinesi infiltrati, che a Mong Kok fanno girare parecchi soldi. Occupy Hong Kong, il movimento democratico dell’ex colonia britannica che ha avuto il merito e il coraggio di ingaggiare una battaglia senza speranza contro Pechino, deve quindi abbozzare, alla luce di una seconda scoppola nel giro di due giorni.

Giovedì aveva incassato la baldanzosità del «lupo» Leung, il «chief executive» della città, personaggio discutibile e ambiguo, capace però di rigirare a proprio vantaggio una situazione in cui sembrava spacciato. E ieri il movimento ha subito l’onta di un attacco da parte dei suoi concittadini, desiderosi di tornare alla «normalità». La risposta dei leader di Occupy, alle prese anche con spaccature interne non da poco, è stata quella di annunciare la rinuncia al dialogo con il governo, che secondo i ragazzi avrebbe messo lo zampino negli scontri di ieri.

In un comunicato di ieri la Federazione degli studenti di Hong Kong, che era stata invitata ai colloqui con la «numero due» del governo Carrie Lam, ha specificato di «non aver altra scelta» che quella di annullare gli incontri, dato che la polizia «ha chiuso gli occhi» sugli attacchi contro i manifestanti condotti in diverse zone della città. Gli aggressori, che in alcuni casi se la sono presa anche con giornalisti e turisti stranieri, affermavano di essere «sostenitori di Pechino» o «cittadini stanchi delle proteste», ma secondo gli studenti si trattava di «delinquenti prezzolati».

Gli attacchi hanno preso di mira le due concentrazioni di manifestanti meno numerose, quelle di Mong Kok e quella di Causeway Bay sull’isola di Hong Kong. Non è da escludere una costruzione ad arte da parte del governo locale, una volta inferto il colpo delle mancate dimissioni di Leung. Ma Hong Kong, va precisato, anche nei mesi scorsi aveva visto manifestazioni a favore della Cina, organizzate proprio durante i giorni del referendum lanciato da Occupy sul metodo di elezioni per il suffragio del 2017.

Pechino un risultato l’ha ottenuto di certo: ha mandato in confusione i leader della protesta, sempre più in difficoltà a controllare l’inesperienza di piazza dei propri membri. Proprio ieri la stampa locale sottolineava la perdita di fiducia della massa, nei confronti dei leader. Ieri Wong Yeung-tat, di Civic Passion, avrebbe infatti esortato i manifestanti a non fare affidamento su nessun «organizzatore principale» che sostiene di «essere al comando».