Anche in Asia c’è la consueta discrepanza tra i numeri forniti dagli organizzatori delle manifestazioni e le forze di polizia. Secondo Occupy Central, almeno 500mila persone il primo luglio, avrebbero riempito le strade dell’ex colonia per chiedere il suffragio universale per le elezioni del 2017.

Secondo le forze di polizia, sarebbero stati solo in 90 mila circa. In entrambi i casi si tratterebbe della manifestazione più partecipata degli ultimi dieci anni di Hong Kong. Del resto quest’anno l’occasione era evidentemente ghiotta. La «marcia» arrivava poco dopo la pubblicazione di un Libro Bianco da parte di Pechino, nel quale il Partito comunista cinese ribadiva la sua specifica ingerenza negli affari politici ed economici di Hong Kong. Una pubblicazione che ha sollevato non pochi malumori tra gli attivisti di Hong Kong, che nei giorni precedenti alla manifestazione hanno organizzato anche un referendum on line, cui hanno partecipato 800 mila persone, per decidere come eleggere il futuro primo ministro.

Non a caso gli striscioni che hanno campeggiato nei luoghi simbolo della manifestazione, esponevano il numero 689, ovvero i voti raccolti dall’attuale primo ministro dell’isola (chief minister, come viene chiamato da quelle parti). Il premier infatti viene eletto da un comitato di 1200 grandi elettori, solitamente composto da funzionari legati a Pechino e uomini d’affari. La manifestazione del primo luglio ha avuto anche un seguito con l’occupazione di alcune strade e almeno 500 arresti, di cui oltre un centinaio ancora in stato di fermo, con molti testimoni che hanno sottolineato la violenza usata dalle forze dell’ordine nel contrastare le azioni della piazza.

Molti studenti e rappresentanti del movimento Occupy Central hanno denunciato maltrattamenti e pestaggi. Pechino ha bollato come «farsa» il referendum e ha avuto poca attenzione per una manifestazione che dal Partito comunista viene letta come direttamente rivolta al potere cinese sugli affari politici ed economici di Hong Kong. Dopo i fronti interni, il Tibet e il Xinjiang, per Pechino se ne apre un altro, dai risvolti politici «rischiosi» per la dirigenza centrale.