L’intervista di seguito e è tratta da un incontro di Harry Dean Stanton con la stampa estera di Hollywood nel 1985, in occasione dell’uscita di «Fool For Love» («Follia d’Amore») di Robert Altman.

 

Come è arrivato a Hollywood?
La prima volta mi sembra con un Greyhound.

 

Aveva un contratto?
No, ho cominciato a lavorare alla Pasadena Playhouse e ho fatto dei contratti lì. Poi ho lasciato la California per un paio d’anni. Nel cinema sono entrato grazie a  Charles Bronson.

 

Ha continuato nel teatro?

Non mi interessa in questo momento lavorare sul palcoscenico. Ho fatto tanto teatro, l’ho studiato ma questa è l’era elettronica, l’era del cinema. Il suo pubblico è molto più vasto e inoltre in un film è più facile improvvisare.

 

 

Per lei è importante il successo commerciale?
Sì, ma non solo per una questione di soldi. Se un film ha successo significa che molta gente lo vede, e un attore si augura sempre di raggiungere il massimo del pubblico. In genere non mi piace utilizzare delle categorie –  mainstream e cinema d’arte, non sopporto queste etichette: fai un film e speri semplicemente che  funzioni.

 

A proposito, lei è stato a lungo etichettato come caratterista, le è spiaciuto?
Certo. In Paris, Texas ero l’interprete principale insieme a Nastassja Kinski e il film ha vinto il festival di Cannes. Vale anche il contrario: chi interpreta i ruoli principali pensa di non poter fare altro. Le etichette sono una prigione, un limite psicologico deleterio.

 

Qual è il suo approccio alla recitazione?
Non so, forse naturalistico. Mi affascina è la linea fra la simulazione del comportamento e il comportamento stesso. Una volta Jack (Nicholson,ndr) mi disse: «Fai recitare il costume, tu fai te stesso». Io cerco di farlo il più possibile, al resto pensa il guardaroba.

 

Chi l’ha ispirata?
Sono stato molto influenzato da Marlon Brando, mi è sempre sembrato che avesse capito davvero  come funziona essere attore. Era un pioniere nell’espressione del comportamento umano, nelle sue sfumature essenziali, dettagli, movimenti, schemi vocali. È stato un riferimento per tanti attori e ne ha rovinati anche altrettanti che cercavano di imitarlo. Poi  Montgomery Clift, per la sua vulnerabilità, Jimmy Dean…Nella generazione precedente mi è sempre piaciuto Bogart, ed Edward G. Robinson, quelli meno prevedibili e noiosi. Fra le attrici Simone Signoret e Jeanne Moreau.

 

Lei ha lavorato anche in film «popolari» come «Pretty in Pink» sceneggiato da John Hughes.
Ho esitato a accettare quel ruolo (patrigno di una Molly Ringwald adolescente, ndr.). Di solito ho recitato in film dove c’è più spazio per la creatività e in cui i registi hanno maggiore autonomia. Ma non avevo visto molti film intelligenti pensati per un pubblico giovane. Alla fine è nata un’amicizia con molti giovani attori che apprezzavano il mio lavoro. Quando li hanno battezzati  «Brat Pack» mi hanno chiamato il loro «guru» – un’ altra etichetta che non sopporto. Mi sembrava di avere una responsabilità nei confronti di questa nuova generazione e Hughes ha un innato talento   per rivolgersi a loro.

 

Cosa pensa in generale del cinema di Hollywood?
Il problema principale in questa industria è trovare un buon copione, materiale effettivamente creativo, capace di ispirare il pubblico e «appagarlo» in modo  costruttivo. Sa perché la gente va al cinema o a teatro? È cominciato come una religione alla fine è un’ esperienza mistica. Non voglio sembrare  ponderoso ma si può divertire anche trasmettendo significato. Film che hanno qualcosa da dire senza voler predicare …beh, è difficile trovare quel tipo di sceneggiatura.