Con l’autoproclamazione a presidente ad interim del 35enne ingegnere industriale Juan Guaidó e il suo immediato riconoscimento da parte di Trump, è forte il rischio che il Venezuela abbia superato il punto di non ritorno.

Non è la prima volta, in realtà, che gli Stati uniti si precipitano a riconoscere un presidente usurpatore: era successo anche l’11 aprile del 2002 con il golpista Pedro Carmona, rimasto al potere 47 ore e poi arrestato. Ma la situazione, oggi, si presenta assai più complessa.

ALLA ROTTURA DELLE RELAZIONI diplomatiche con gli Stati Uniti decisa da Maduro, che ha dato al personale diplomatico degli Stati Uniti 72 ore per lasciare il paese, gli Usa hanno risposto come c’era da attendersi: che, cioè, non ritireranno il proprio personale da Caracas, perché, ha affermato il segretario di Stato Mike Pompeo, non considerano che Maduro «abbia l’autorità legale per rompere le relazioni con gli Stati uniti», e perché Juan Guaidó, legittimo presidente ad interim, «ha invitato la nostra missione a restare in Venezuela».

Una dichiarazione a cui ha subito replicato il presidente dell’Assemblea nazionale costituente Diosdado Cabello: «È possibile che sparisca la luce nella zona e non arrivi il gas, con tanti problemi che ci sono in questo paese».

Dove si trovi ora il presidente usurpatore – che nel frattempo ha proceduto anche a nominare un proprio ambasciatore presso l’Organizzazione degli stati americani – non è dato saperlo, non essendo confermata la notizia che si sarebbe rifugiato nell’ambasciata della Colombia per sfuggire all’arresto. Il deputato dell’opposizione Freddy Guevara ha smentito tali voci su Twitter, descrivendo Guaidó impegnato a ricevere telefonate di sostegno a livello internazionale.

 

IL SOSTEGNO NON GLI MANCA, in effetti, al fino a pochi giorni fa sconosciuto membro dell’opposizione, catapultato all’attenzione del mondo dal ben congegnato piano golpista statunitense: al riconoscimento lampo di Trump, è subito seguito quello, altrettanto scontato, del colombiano Iván Duque, del brasiliano Jair Bolsonaro e degli altri governi del Gruppo di Lima, ma anche del Canada e della Francia. Benché assai più lunga sia la lista di Paesi che continuano a riconoscere Maduro come legittimo presidente, guidata dai paesi dell’Alba, dal Messico e dall’Uruguay, e da Russia, Cina, Turchia, Siria. Ma è tutto il mondo che si sta chiedendo cosa accadrà ora.

Il golpe è in atto, pianificato e diretto dagli Stati uniti, da sempre decisi a mettere le mani, come ha sottolineato ancora una volta il presidente Nicolás Maduro, sul petrolio (di cui il Venezuela possiede le maggiori riserve certificate del pianeta) e sulle immense ricchezze minerarie del paese.

IL MODO IN CUI IL COLPO DI STATO si concretizzerà è difficilmente prevedibile, tanto più di fronte al consenso di cui il governo bolivariano ancora gode in un’ampia fascia della popolazione e al ribadito sostegno a Maduro da parte della Fanb, la Forza armata bolivariana: «Non accettiamo un presidente imposto all’ombra di oscuri interessi e autoproclamato al margine della legge. La Fanb – ha scritto il ministro della Difesa Vladimir Padrino López – difende la nostra Costituzione ed è garante della sovranità nazionale. Coloro che propugnano questo governo di fatto, parallelo, fanno un gioco molto pericoloso».

NÉ È FACILMENTE IPOTIZZABILE una “soluzione” militare, che, come evidenzia Atilio A. Borón, «richiederebbe un impopolare invio di truppe nordamericane in Venezuela, in un momento in cui alla Camera dei rappresentanti di Washington acquista forza il progetto di mettere Trump sotto impeachment».

«Tutte le opzioni sono sul tavolo», ha garantito il presidente degli Stati uniti. Ma intanto quello che ci si può attendere è una riattivazione delle guarimbas, delle violenze per le strade organizzate dalle forze paramilitari – 14 finora i morti – e favorite dal recupero della capacità di mobilitazione di cui ha dato prova la destra venezuelana nella giornata del 23 gennaio.