Una edizione marcatamente retromaniaca, come direbbe il critico Simon Reynolds, con tributi alla canzone brasiliana, al songbook jazz, ad Aretha Franklyn, al canzoniere italiano e infine a David Bowie. “È una scelta consapevole e meditata. L’imperativo oggi è riportare la gente ai concerti; solo così si possono ricreare le condizioni per consentire nuovi sguardi e nuove musiche”. Così motiva il programma, Giancarlo Velliscig, direttore artistico di Grado Jazz. Una scommessa vinta visto l’ottimo afflusso di pubblico suggellata con un rotondo tutto esaurito per la serata finale con Paolo Conte. Ma la musica come è stata? Nel jazz conta più il come del cosa e di questo se ne è potuto avere la plastica rappresentazione confrontando gli estremi del concerto del duo del pianista Danilo Rea e del fisarmonicista Luciano Biondini, quest’ultimo in sostituzione di Enrico Rava assente per motivi di salute, su un repertorio dei grandi cantautori da Gino Paoli a Fabrizio De Andrè, e quello del sestetto di Paolo Fresu nel tributo al Duca bianco. Nel primo si è banalizzato tutto ciò che è profondo con un repertorio di strizzatine d’occhio e virtuosismi da gioco di prestigio. Nel secondo invece la rilettura è perfettamente riuscita grazie all’intelligenza del trombettista sardo nel aver saputo, e osato, fare a brandelli i brani di Bowie, da Rebel Rebel a Starman fino a Heroes, e poi rivestirne lo scheletro melodico con abiti sonori nuovi tra drum ‘n’ bass, techno, elettronica spinta. Decisiva la scelta della cantante Petra Magoni la cui potenza scenica, magnificamente sopra le righe, ha letteralmente incendiato il palco.

NUTRITA e confortante anche la presenza di giovani jazzisti. Ottima la performance degli allievi del Conservatorio Tartini di Trieste preparati da Giovanni Maier, con il pianista bulgaro Stilian Penev, un nome da appuntare nei taccuini. Bella anche la prova del quintetto guidato dal contrabbassista toscano Michelangelo Scandroglio su proprie composizioni insieme al pianista Alessandro Lanzoni, al batterista Bernardo Guerra, ai fiati Michele Tino e Hermon Mehari. Un jazz teso e dalle fitte tessiture che ha mostrato nitide individualità, coesione e convinzione. Spazio anche per l’improvvisazione con due performance in solo di Daniele D’Agaro e Mirko Cisilino nel centro cittadino. Quest’ultimo ha alternato tomba, trombone e tuba, oltre a svariate sordine, evocando atmosfere da fanfare e marce, e citazioni ellingtoniane. Esperimento da ripetere, magari in contesti meno dispersivi.

AI VERTICI del Festival, a parte Paolo Conte di cui è superfluo qui dire la grandezza, i due concerti di altrettanti piano trio, per due approcci diversi al modo di usare un organico tra i più classici del jazz. Quello di Brad Mehldau, con Larry Grenadier al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria è la declinazione contemporanea della concezione orizzontale e votata al massimo interplay tra i musicisti che deriva dall’immortale trio di Bill Evans. Il cinquantenne pianista di Jacksonville ha sciorinato un pugno di brani originali, derive pop (Beach Boys), omaggi a Monk ma soprattutto ha pescato dal serbatoio infinito dei grandi standard di Cole Porter e Hoagy Carmichael. Una performance intrisa di leggerezza, non superficialità, ed eleganza, con una versione di The Nearness of You da cui Mehldau ha saputo spremere tutto il romanticismo possibile.  Tutt’altro approccio quello dell’armeno Tigran Hamasyan, 34 anni, che ha presentato con il bassista Evan Marien e il batterista Arthur Hnatek il suo ultimo disco The Call Whitin. Estetica fusion: synth e vocalizzi con richiami alle origini del musicista. I pezzi sono incardinati a scansioni ritmiche dure, minimali, ossessive. Un funk robotico dal quale spuntano arabeschi e frammenti melodici. Picchia duro sulla tastiera Tigran, e picchia bene. Il pubblico è tutto in piedi ad applaudirlo. Dall’alto una enorme luna piena illumina benevola il ritorno del popolo del jazz.