A Good American è un documentario tra i più importanti degli ultimi anni. E le ragioni non stanno solo nei suoi meriti estetici. Nel film l’austriaco Michale Moser – documentarista televisivo con un’educazione da storico – racconta l’incredibile vicenda di Bill Binney, ex direttore tecnico della NSA – una delle principali agenzie di intelligence degli Stati Uniti – e della sua più brillante invenzione, il sistema Thin Thread, un programma informatico capace di produrre e gestire metadati in modo da garantire una sorveglianza e un controllo non lesivi dei diritti dei cittadini, contemporaneamente capace di scongiurare le peggiori minacce alla sicurezza della nazione. Il sistema, prima della sua effettiva attivazione, ma dopo che ne fosse provata la perfetta efficacia, fu messo da parte – preferendogli il più costoso e inefficiente Trailblazer – e infine sequestrato, tutto all’interno di una lotta intestina tra i vertici dell’agenzia e il team diretto dal matematico. La traiettoria della vicenda di Binney diventa così una scia luminosa che getta luce sui retroscena della trasformazione e della ricollocazione del potere negli stati dell’Occidente democratico.
Moser racccoglie la testimonianza e la denuncia di Binney, brillante matematico e integerrimo servitore dello Stato, e ci intaglia dentro un dispositivo cinematografico a due facce che intreccia legal thriller e film pamhplet sfruttando la duttilità estetica del documentario per ragionare sull’invisibile, onnipresente minaccia alla nostra libertà.

Potresti cominciare raccontando il primo momento in cui hai iniziato a lavorare sul film e su Bill Binney, protagonista del film.

L’inizio del lavoro sul film e il primo incontro con Bill Binney sono accaduti in due momenti diversi. Tutto è cominciato nel 2010 con Wikileaks. Poi sono finito a lavorare su Telecomix, un gruppo di hacker. Seguivo in particolare la storia di un tedesco, quando a un certo punto lui si è messo a fare ricerche su quello che stava succedendo con la repressione in Siria e ha scoperto che sul server del governo siriano girava un software americano. Lo stesso hacker tedesco si è messo poi a cercare altre tracce dello stesso software in giro per il mondo, e ha scoperto che era attivo in tutte le maggiori dittature e anche in molti paesi europei. Quando eravamo pronti a uscire con questa storia è venuto fuori il caso Snowden e ha mostrato a tutti che l’ampiezza e l’intensità della sorveglianza e del controllo da parte delle agenzie nazionali di intelligence erano molto maggiori di quanto ci si aspettava che fossero.
Il mio retroterra accademico non è il cinema ma la Storia, per questo la mia prima domanda è stata: come ci siamo infilati in questa situazione? Come siamo passati da quel che accadeva durante la Guerra Fredda, quando queste agenzie concentravano il loro lavoro di spionaggio soprattutto su nemici militari, alla situazione in cui siamo oggi, con i comuni cittadini considerati alla stregua di un nemico. Mi sono detto che il modo migliore per rispondere a questa domanda era raccontare la storia di una persona.
Nel lavoro di ricerca e preparazione per il progetto interrotto in coincidenza dell’esplosione del caso Snowden, Bill Binney era già nella lista delle persone che avrei voluto intervistare. Ho scelto lui come protagonista perché è stato alla NSA per trent’anni per diventare alla fine un pubblico accusatore dei suoi superiori. Mi son detto: deve essergli successo qualcosa perché facesse questa scelta, qualcosa di grosso, d’importante. Così ho pensato che dietro ci fosse una storia da raccontare.
Quando ho scoperto per la prima volta la storia di Bill sono rimasto molto affascinato – tanto che mi sono chiesto come mai nessun filmmaker statunitense l’avesse ancora raccontata – ma anche un po’ spaventato. Avevo letto di quel che era successo a Laura Poitras, la regista di Citizenfour, il film su Snowden, e ho capito di avere due opzioni: potevo provare a tenere il mio lavoro fuori dalla conoscenza di chiunque non fosse direttamente coinvolto, ma non avevo le conoscenze tecniche e professionali necessarie per farlo; dovevo allora produrre molto rumore intorno al mio lavoro. In questo modo, se mi fosse successo qualcosa, la gente avrebbe subito pensato che c’entrava in qualche modo il mio film.

Nei titoli di coda si legge di un “cross media project”. Di cosa si tratta? È una parte del “rumore” di cui parli?

Il film è stato pensato all’inizio come un progetto crossmediale, solo che poi non siamo mai riusciti a trovare i finanziamenti per la parte on line. Jamie Balliu, l’artista dietro le animazioni e l’art work del film, aveva sviluppato un progetto molto interessante: una piattaforma interattiva dove il visitatore/utente potesse accedere a una sorta di simulazione di Thin Thread usandolo nello scenario dell’undici settembre. In questo modo avremmo mostrato direttamente come e quando Thin Thread avrebbe svelato la trama terroristica in tempo per scongiurare l’attacco. Penso sarebbe stato un ottimo modo per dare al pubblico l’esatta percezione di quali siano i diversi approcci alla sorveglianza e al controllo.

Tornando al film, qual è stato il lavoro sullo stile del racconto e ancor di più sulla costruzione dell’intreccio visivo, considerato che si tratta di un film tutto centrato su qualcosa che è invisibile e immateriale?

Ci è stato chiaro fin dal principio che questa storia – la storia del programma e di cosa ne è stato alla fine – era un thriller classico, come i film di Hollywood.
Il primo grosso problema era la totale assenza d’immagini di Bill al lavoro. Non esisteva neppure una singola foto, né tanto meno esistevano archivi audiovisivi. Per ricostruire alcuni materiali d’epoca e dare un’idea dell’ambiente tecnologico in cui lavorava Bill abbiamo scelto il reenactment. Per quelle parti del racconto in cui invece era importante entrare nella mente di Bill, abbiamo lavorato su immagini che funzionassero un po’ come metafore, immagini che ci permettono di cogliere la sua emozione, dispiegando in qualche modo l’oggetto delle sue parole. Quando per esempio Bill parla dei luoghi del potere, delle minacce alle quali era sottoposto all’interno della sua stessa organizzazione – l’NSA –, ho montato una partita di scacchi, un gioco di potere. Poi naturalmente ci sono le interviste.
Per collegare questa incredibile storia segreta alla conoscenza generica che più o meno tutti hanno, abbiamo costruito delle sequenze usando materiali d’archivio sugli eventi storici che tutti conosciamo, come per esempio il primo attacco del ’93 al World Trade Center, le bombe alle ambasciate statunitensi in Africa, nel ’98, ma anche la guerra in Vietnam e ovviamente l’undici settembre. Infine, dal momento che penso sia fondamentale capire la concezione di Binney alla base del programma Thin Thread, ci sono anche delle animazioni, perché si tratta di qualcosa di molto complesso e perfettamente invisibile.

Il film è al contempo una biografia, un pamphlet, un thriller. Come hai lavorato nella costruzione di una forma che tenesse insieme tutte queste cose?

Per noi la cosa più importante era la narrazione, e poi anche rompere lo sviluppo lineare degli eventi, frantumarlo e ricostruirlo attraverso una serie di salti in avanti e indietro. È in questo modo che costruisci la tensione, ma è anche il modo di costruire un discorso complesso a partire da una narrazione. Costruendo una prima conoscenza di base sugli elementi della storia, l’introduzione di ogni nuovo elemento produce un effetto completamente diverso sullo spettatore. C’è per esempio la sequenza che noi chiamiamo “dell’arroganza del potere”. L’idea è stata del montatore: introdurre un episodio del lavoro di Binney durante la guerra del Vietnam e montarlo immediatamente dopo il racconto delle azioni contro Thin Thread dei vertici dell’NSA. C’è Michael Hayden, il numero uno dell’agenzia, che si comporta in modo molto arrogante rispetto al programma di Bill, e poi il ricordo dell’arroganza dei vertici dell’epoca durante la guerra del Vietnam. Alla fine stanno le conseguenze di questa arroganza: un’enorme quantità di morti. In qualche modo un adombramento dell’arroganza che ha condotto gli Stati Uniti all’undici settembre.
Il film si può vedere da diversi punti di vista differenti, a più livelli: da una parte è la storia di un colossale tradimento e di come la sicurezza è stata venduta in cambio di denaro; d’altra parte si tratta anche di una profonda immersione nella meravigliosa mente di Bill Binney. Quello che m’interessava costruire era un film stratificato. Questo film ha la struttura di un thriller perché è un film morale sui principi etici. È un film sull’integrità e sul suo opposto. Questa storia è importante perché ci dice che tutta la sorveglianza di massa attiva oggi in quasi tutti i paesi occidentali è fondata su una bugia. E la bugia è che c’è bisogno di questo genere di sorveglianza totale e indiscriminata per evitare gli attacchi terroristici. È vero il contrario: la sorveglianza di massa permette che gli attacchi terroristici accadano perché gli analisti sono inondati dai dati e per questo sono del tutto incapaci di individuare le minacce nel tempo utile per prevenirne il compimento. Il punto non è accumulare la maggior quantità possibile di dati ma ottenere i dati giusti nel più breve tempo possibile. Questo problema lo ha risolto Bill Binney con il suo lavoro, parecchi anni fa.

INTERVISTA A BILL BINNEY

Qual è l’urgenza che sta all’origine della sua denuncia e come mai ha accettato di versarla in un film?

Prima di tutto si tratta di denunciare una violazione dei diritti umani che sono sanciti dalla nostra costituzione. Io e i miei colleghi ci siamo detti che dovevamo prendere la parola e dire quello che sapevamo, anche solo perché nessun altro poteva farlo al posto nostro.
Abbiamo provato a rivolgerci a tutte le sedi ufficiali pertinenti. Ci siamo rivolti al Vice Presidente Chaney, al Presidente, al procuratore Generale Gonzalo, ma ci hanno messi a tacere e hanno ordinato all’Fbi d’incriminarci. Non ho fatto nulla di male, anzi, ho fatto esattamente quel che era giusto fare secondo la legge. Ma quello che è successo dopo dimostra che se quel che fai non piace a chi ha il potere, ti verranno comunque a cercare, che tu abbia commesso un errore oppure no.
La ragione per la quale ho immediatamente accettato la proposta di Fritz è che in passato ho lavorato per arrivare a un articolo pubblicato sul New Yorker e un altro su Wired ma non è servito a raggiungere il grande pubblico. Come quando leggi un libro sulla matematica: alla prima lettura non riesci a capire, devi leggere e rileggere. La maggior parte della gente non ha la concentrazione necessaria o non ha la volontà per farlo, il messaggio comunque non arriva a destinazione. Nel caso di un film invece, virtualmente chiunque può vedere e capire. Ecco perché ho accettato subito di partecipare al film.

Da quello che lei dice nel film, sembra ci sia stato un drastico, preoccupante cambiamento nel modo di lavorare delle agenzie di intelligence degli Stati democratici occidentali. Di quale cambiamento si tratta?

Tra la Seconda Guerra Mondiale e l’era digitale, nelle agenzie di intelligence il lavoro si concentrava ancora su gruppi di persone che stavano compiendo o avevano intenzione di compiere atti illegali: traffico di armi, traffico di droga, attività criminale a livello internazionale. Il cambiamento radicale è stato passare a occuparsi delle singole persone, dei comuni cittadini. È stato passare a un modello in stile Stasi, o KGB, o come le SS della Gestapo; sistemi per i quali il nemico non è solo esterno, è anche interno, ed è potenzialmente chiunque. Si è trattato quindi di diventare uno Stato totalitario. È esattamente quello che dissi all’inizio di questa vicenda: che stavano seguendo la via verso uno Stato totalitario. Ho lavorato in quei luoghi, soprattutto in Unione Sovietica, ma anche nella Germania dell’Est e so di che parlo. Era molto chiaro che stavamo adottando il loro modus operandi.

Nel film cita cinque punti secondo i quali sarebbe possibile, nella ua esperienza, riconoscere una situazione di rischio. Potrebbe citarli?

Sono ancora secretati e non posso parlarne. Posso solo dire che purtroppo i servizi di intelligence hanno perso la capacità di comprendere il mondo. Ho lasciato la National Security Agency nel 2000, ma ho documentato questo stato di cose già nei primi anni Novanta. Se si fosse lavorato ancora come si faceva una volta, i movimenti di forze militari in Crimea o in Ucraina non sarebbero stati una sorpresa. Per questo dico che hanno perso la loro abilità. E non è l’unica abilità che hanno perso. A proposito delle recenti rivelazioni sulla pirateria informatica russa (che avrebbe influito sull’andamento delle elezioni negli Stati Uniti), per me era chiaro fin dall’inizio che si trattava di una montatura. Quello che secondo me ci stanno dimostrando – ed è qualcosa di veramente pericoloso – è che tutti i sistemi di intelligence delle democrazie occidentali hanno perso la disciplina professionale necessaria per qualsiasi efficace produzione di informazioni e spionaggio, e sono invece sempre più uno strumento per l’ottenimento di obiettivi politici. E questo è molto pericoloso, cose molto brutte succederanno per causa di questo stato di cose.

In questo nuovo sistema sembra che la rappresentazione e il racconto che del mondo i mass media offrono abbia un ruolo fondamentale.

La gente pensa che l’era digitale sia un passaggio epocale, un cambio drastico rispetto all’era analogica, ma non è così: le persone fanno le stesse cose, solo che usano mezzi diversi. In parte il punto è nella prospettiva, nell’idea che l’era digitale sia una cosa complicata, perché se pensi questo poi dipendi da altre persone dalle quali aspetti che ti spieghino e che ti guidino. A causa di questo atteggiamento passivo e rinunciatario la gente tende ad arrendersi e accettare automaticamente quello che le amministrazioni dicono loro. Così si crea l’illusione che le leadership dei nostri paesi debbano per forza aver ragione, e che per forza esse abbiano un’idea precisa e una comprensione profonda di quel che succede. Questo è semplicemente falso.

Che cosa pensa di quello che sta succedendo tra il presidente Trump e gli apparati statali, soprattutto quelli delle agenzie di intelligence?

Oh, be’, si può pensare quello che si vuole di Trump, ma io sono ottimista: la guerra che gli stanno facendo apertamente è incostituzionale e mi pare del tutto probabile che il presidente licenzierà in massa tutta la leadership delle agenzie. Sono destinati a perdere i loro incarichi. Per questo mi dico ottimista.

A proposito dei rischi che ha incontrato lungo il suo cammino, ne ha affrontati parecchi prima che iniziasse a girare il film, ma dopo che il film è stato finito cosa è successo?

Niente e questo perché penso che non vogliano attirare l’attenzione su di me. Il film è una forma di comprensione mediata: davanti a un’esperienza visuale un’ampia platea può comprendere e arrivare alla consapevolezza su quel che sta succedendo. E loro questo non lo vogliono. All’opposto, vogliono che le persone restino disinformate, incapaci di capire quel che sta succedendo, dipendenti. In realtà cercano di mettere tutto a tacere in ogni modo possibile.