Due berline nere sfrecciano in un capannone della periferia di Bergamo, dalla Bmw esce don Pietro Savastano: recluso al 416bis, è scappato durante un trasferimento, è il momento di riorganizzare le truppe e riprendere il comando del clan. La moglie Imma è stata giustiziata in strada, il figlio Genny è gravemente ferito ma non morto. Da qui riprende Gomorra 2 la serie evento prodotta da Sky, Cattleya e Fandango. La periferia di Bergamo è in realtà l’interporto di Nola: le nuvole basse, sulla conca tra colline e cave, riproduce l’atmosfera della periferia lombarda. Un’altra troupe è al lavoro a Scampia, le prime riprese sono già state fatte in Germania. La saga della famiglia Savastano nei prossimo dodici episodi (in onda nella primavera 2016) proseguirà sul doppio binario: il racconto romanzato del microcosmo camorristico riprodotto in ogni aspetto fino a cavarne fuori degli archetipi, dei personaggi shakespeariani con cui si relaziona il pubblico di 113 paesi.

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Nessuno di loro è un eroe, su tutti incombe il destino, è come fossero già morti” spiega Marco Palvetti, che interpreta il personaggio di Salvatore Conte. La prima serie ruotava intorno a don Pietro (Fortunato Cerlino), il figlio Genny (Salvatore Esposito) e la moglie Imma (Maria Pia Calzone): la trama svelava il conflitto tra generazioni, come in un dramma antico; tra loro la figura femminile che media, protegge ma alleva anche il futuro re o regicida, mentre tiene le fila del clan con la diplomazia e la violenza. Una dinamica che esplode con l’introduzione del figlio acquisito con l’animo di Iago, Ciro Di Marzio (Marco D’Amore). “In fondo è un racconto sulle famiglie disfunzionali” scherza il regista e supervisore artistico Stefano Sollima.

Nella seconda serie si dispiegherà la guerra tra maschi: don Pietro, Genny, Ciro e Salvatore Conte, l’uomo dei traffici di droga in Spagna. Gli sceneggiatori (Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi e Maddalena Ravagli) producono fiction innestata nella cronaca: il racconto è quello della camorra dell’hinterland partenopeo, totalmente differente dai clan casertani. Non ci sono legami di sangue né radicamento in un territorio (come per i casalesi, molto simili ai mafiosi siciliani) ma dinamiche da malavita urbana, dove i tradimenti e le alleanze cambiano con le convenienze del momento, le famiglie vengono distrutte o scalano le vette in tempi rapidissimi, i soldi viaggiano veloci verso l’estero prima della distruzione. Così anche la fiction scavalca le Alpi e poi si sposta in Croazia e in Sudamerica.

Dietro le telecamere quattro registi, a ognuno è affidato lo sviluppo di una delle trame principali: Stefano Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini e la new entry Claudio Giovannesi. “Mi è piaciuto il suo film Alì ha gli occhi azzurri – spiega Sollima – il suo stile documentaristico nel racconto cinematografico è perfetto per Gomorra. A Cristina Comencini era affidata Imma Savastano, resa benissimo dall’intensa recitazione di Maria Pia Calzone, nella seconda serie seguirà lo sviluppo di due nuovi personaggi: Patrizia (Cristiana Dell’Anna) è capocommessa in una boutique di corso Secondigliano, da lì raccoglie chiacchiere e confidenze da girare a suo zio, Malamò, luogotenente di Pietro Savastano; Annalisa, detta “Scianel” (Cristina Donadio), ha ereditato la piazza di spaccio di suo fratello Zecchinetta, il boss ucciso dai ragazzini di Genny.

A dare identità alle storie è lo stile delle immagini, studiato da Sollima nei dettagli (dagli interni alle luci), con cui raccontare luoghi e paesaggi urbani. La scena nel capannone industriale ad esempio in cui riappare don Pietro (un camerone dalle pareti bianche ingrigito dai fumi dei motori), che i giornalisti hanno visto mentre veniva girata, appariva sui monitor segnata da una luce verde vibrante.

La recitazione degli attori, con gli sguardi e la gestualità della tradizione partenopea, il linguaggio preso dal ‘napulegno’ (non il napoletano codificato nella letteratura ma lo slang veloce dei vicoli, che impasta dialettismi, italiano ed espressioni gergali), le scenografie urbane e il loro tappeto sonoro, fatto di neomelodici e rap delle periferie, con i suoni tronchi adatti al ritmo battente ma capace di aprirsi alla melodia, offrono un nucleo narrativo talmente potente che la produzione (circa 16milioni il costo a stagione) ha venduto Gomorra 2 prima ancora di girarlo e già ragiona sulla serie numero 3.