La chiamano tregua, ma tregua non è: da martedì, quando il cessate il fuoco di 7 giorni è entrato in vigore in Yemen, almeno 42 combattenti di entrambe le parti sono stati uccisi. È stata rotta da tutti, da ribelli Houthi, dal governo, dai jet sauditi, mentre in Svizzera si raggiungeva il primo piccolo risultato del negoziato tra esecutivo ufficiale e ribelli.

Mercoledì a mezzogiorno si sono scambiati i rispettivi prigionieri, su mediazione delle tribù locali: 360 Houthi contro 265 miliziani dei movimenti secessionisti del sud. Un atto di buona volontà, lo ha definito l’Onu, ma lontano dalla pace. Riyadh ne imputa la responsabilità al nemico: ieri il generale al-Assiri, capo della coalizione, ha calcolato «150 violazioni» da parte Houthi. Ma le accuse non sono a senso unico: mercoledì jet sauditi sono volati sopra Aden, mentre ieri le forze dell’ex presidente Saleh (alleato Houthi) denunciavano raid a Taiz, Hajja e Hodaida.

A Ginevra non va meglio: il negoziato è rimasto sospeso per un giorno per il mancato accordo sul rilascio immediato da parte Houthi del ministro della Difesa al-Subaihi e il fratello del presidente Hadi, catturati lo scorso marzo. Gli Houthi non vogliono giocarsi l’asso che hanno in mano e dicono di voler prima ottenere un cessate il fuoco permanente.

Ma la crisi yemenita non è vicina alla fine. La presenza di Isis, al Qaeda, movimenti secessionisti, tribù rende più complessa la transizione politica. Ad ostacolare il dialogo è, però, soprattutto l’Arabia saudita alle prese con il suo Vietnam: Riyadh si è impantanata nel guado yemenita e non può permettersi di mollare l’osso.