Un rapporto di Amnesty international, diffuso ieri, accusa il governo turco di aver compiuto una repressione su vasta scala durante le proteste del giugno scorso a Gezi Park. Un movimento di contestazione iniziato con la difesa degli alberi del parco, situato nel centro di Istanbul, minacciati da un progetto governativo a fini commerciali. La brutale dispersione dei militanti ecologisti da parte della polizia ha però moltiplicato il movimento, trasformandolo in una contestazione politica alla gestione «autoritaria» del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, accusato di voler «islamizzare» il paese. Il titolo del rapporto sintetizza quanto comprovato in dettaglio dall’organizzazione per i diritti umani: «Le proteste di Gezi Park: la brutale negazione del diritto a manifestare pacificamente in Turchia».

Amnesty denuncia l’uso di proiettili veri, gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, pallottole di plastica e pestaggi che hanno provocato oltre 8.000 feriti. Le numerose testimonianze raccolte ad Ankara, Antalya, Istanbul e Smirne raccontano di detenzioni arbitrarie in luoghi non ufficiali, di maltrattamenti e torture. Almeno due manifestanti hanno subito violenze sessuali. La morte di tre dimostranti o forse più è stata collegata all’uso eccessivo della forza da parte della polizia. I responsabili delle violenze non sono però stati perseguiti, mentre giornalisti, medici e avvocati che hanno raccontato gli abusi hanno subito intimidazioni o sono finiti a processo.

Per questo, in base al suo consueto profilo di denuncia e proposta, Amnesty ha chiesto ai governi e ai produttori di strumenti per il controllo delle rivolte di mettere immediatamente al bando le esportazioni e i trasferimenti verso la Turchia di gas lacrimogeni, spray al peperoncino e «altri prodotti a impatto cinetico». Ha anche ricordato i principi base delle Nazioni unite sull’uso della forza e delle armi da fuoco «da parte dei funzionari incaricati di far rispettare la legge» che devono «evitare o limitare al minimo necessario» l’impiego della forza.
Raccomandazioni che il pacchetto «per la democratizzazione» presentato da Erdogan lunedì scorso non ha inteso raccogliere nella loro sostanza. Il movimento kurdo e le organizzazioni di sinistra chiedono la fine dei processi antiterrorismo, che coinvolgono quotidianamente oppositori, avvocati e giornalisti. Erdogan però ha risposto con molta retorica e qualche briciola più che altro simbolica alle richieste del Pkk, pronto a smobilitare i propri effettivi in armi ma in presenza di misure concrete.

Dal suo carcere sull’isola d’Imrali – dove sconta l’ergastolo dal 1999 – il leader kurdo Abdullah Ocalan ha deciso a marzo un cessate il fuoco e a maggio ha disposto il ritiro dei guerriglieri. All’inizio di settembre, di fronte all’assenza di risposte da parte del governo, la smobilitazione del Pkk verso il Kurdistan iracheno ha subito però una battuta d’arresto.

Ocalan ha denunciato nuovamente la presenza di «uno stato nello stato», illegale e deciso a far fallire anche questa nuova trattativa. Nel frattempo, l’opposizione al governo turco continua a farsi sentire, e il movimento kurdo denuncia violenze e violazioni quotidiane. A Erzurum 5 giovanissimi carcerati hanno chiesto l’intervento delle associazioni per i diritti umani per la detenzione e le torture subite dai minori.