Gli italiani che vanno a Gaza non mancano. Sono operatori umanitari, cooperanti, giovani impegnati in iniziative di solidarietà e di sostegno alla popolazione palestinese. Emanuela Franco, salentina, ci abita. O, per essere più precisi, ci passa buona parte del tempo per stare accanto al marito, Mohammad A. «Le cose non dovevano andare in questo modo», ci racconta Emanuela accogliendoci a casa alla periferia di Beit Hanoun, uno dei punti di Gaza più a rischio. Da qui partono razzi palestinesi e qui si concentrano i raid aerei israeliani. «Ci siamo sposati per procura nel 2017 dopo esserci conosciuti in rete nel 2014, durante la guerra (tra Israele e Hamas)» prosegue l’italiana «non siamo giovanissimi, entrambi veniamo da precedenti matrimoni e abbiamo già dei figli. Parlando per ore ogni giorno ci siamo innamorati. L’idea era quella di vivere in Italia ma è andato tutto storto e Gaza si è rivelata per noi una prigione. Da un anno e mezzo tutti i tentativi fatti da Mohammad di lasciare da Gaza passando per il valico di Rafah con l’Egitto sono falliti. Gli egiziani continuano a negargli il transito e per Erez (tra Gaza e Israele, ndr) c’è lo scoglio dell’interrogatorio da parte dei servizi di sicurezza israeliani. Nessuno può azzardare previsioni su come potrebbe finire».

 

Mohammad non è di molte parole, ascolta la moglie che spiega il calvario che stanno affrontando. Ci tiene a sottolineare di non essere affiliato ad alcun gruppo politico e di non aver mai fatto politica. «Non sono di Hamas, non lo sono mai stato» ci dice perentorio «Tuttavia per anni ho lavorato come impiegato nell’amministrazione dell’ospedale ‘Mohammed Durra’ che è una struttura pubblica, quindi gestita dal governo di Hamas. E non so quanto il mio ex lavoro influisca sull’atteggiamento di Israele ed Egitto». Non è una esagerazione. Il Cairo e Tel Aviv tengono conto anche dell’ambiente politico frequentato da chi richiede un permesso di transito e delle attività politiche svolge dai suoi parenti. Avere un fratello o un cugino membri di Hamas e Jihad, o di altre formazioni militanti, precludere sempre più spesso l’uscita da Gaza.

 

Incidono inoltre le “tariffe” non ufficiali imposte dalle guardie di frontiera egiziane. A Gaza spiegano che per garantirsi il passaggio per Rafah molto spesso occorre versare agli egiziani una bustarella con centinaia o migliaia di dollari. Più è importante il motivo del viaggio e più è pesante la bustarella. Riunirsi con la propria famiglia in un altro paese o frequentare un’università all’estero passando attraverso Rafah e l’aeroporto del Cairo può costare fino a 5mila dollari. Un business al terminale di confine che il regime di Abdul Fattah el Sisi ben conosce ma non ferma.

 

Emanuela ha fatto di tutto per raggiungere Mohammad. Le prime volte è entrata nella Striscia proveniente dal Cairo, dopo aver attraversato il nord del Sinai sotto la minaccia dei gruppi affiliati all’Isis e superato i controlli rigidi delle pattuglie militari disseminate in quel territorio. «Stavolta» spiega «sono riuscita ad ottenere il via libera del Cogat (le autorità militari israeliane per gli affari civili, ndr) e sono entrata dal valico di Erez; è più semplice rispetto alle fatiche e alle tensioni che presentano il Sinai e Rafah, ma non so se questa possibilità mi sarà offerta una seconda volta». Emanuela ha cercato anche di ottenere l’aiuto delle autorità italiane ma dal nostro Consolato generale a  Gerusalemme le hanno spiegato di non poter intervenire perché il marito non è cittadino italiano. «E così siamo ancora a Beit Hanoun» conclude «indecisi su quali passi intraprendere, senza alcun aiuto e senza lavoro».

C’è anche chi è riuscito a lasciare Gaza. Circa 30mila e quasi sempre giovani, secondo dati diffusi nei mesi scorsi, anche di fonte israeliana. Alcuni fra questi hanno ottenuto l’asilo politico in Europa. Altri dalle coste di Turchia ed Egitto provano su gommoni e barconi a raggiungere la Grecia, l’Italia e altri paesi europei di fronte all’economia di Gaza al collasso, all’energia elettrica che manca per gran parte del giorno, all’acqua potabile che scarseggia e alla disoccupazione dilagante. Yusef Adduwan, 25 anni, di Sabra, dopo la laurea in giornalismo, è volato in Turchia attraverso l’Egitto nel febbraio del 2018 e da lì ha tentato più di una volta di arrivare in Europa.  «Le motovedette turche ci rimandavano indietro e altrettanto facevano quelle greche. Raramente si riesce a superare quel blocco». Qualche mese fa, stremato dai tentativi andati a vuoto, dopo aver inutilmente pagato migliaia di dollari ai trafficanti, ha deciso di tornare a Gaza. «Ho pagato 4000 dollari per andare in Turchia e una volta arrivato è stata sempre più dura, insopportabile» ci dice Adduwan «Qui a Gaza non c’è lavoro e rischiamo una guerra con Israele ma preferisco stare con la mia famiglia. E consiglio di fare lo stesso a chi pensa di partire».