Gaza dimenticata, di nuovo. Sono bastate un po’ di indiscrezioni su un accordo di ‎tregua tra Israele e il movimento islamico Hamas ‎«ormai fatto‎» per far richiudere in ‎un cassetto il voluminoso dossier di Gaza e della condizione della sua gente: oltre ‎due milioni di palestinesi che vivono da prigionieri in meno di 400 chilometri ‎quadrati. Ma quell’accordo resta incerto, non se ne parla più. Anzi, si sono ‎complicati ancora una volta i rapporti tra i mediatori egiziani e la leadership ‎islamista e il Cairo ha richiuso il valico di Rafah, l’unica porta di Gaza sul mondo ‎arabo. In questo quadro i palestinesi uccisi continuano a non fare notizia. Eppure ‎ogni venerdì proseguono le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno ‎cominciata a fine marzo. E il bilancio anche ieri è stato drammatico. Diecimila forse ‎più palestinesi hanno raggiunto le linee di demarcazione con Israele per chiedere la ‎fine del blocco di Gaza e tre dimostranti – Shadi Abdel Aal, 12 anni, Hani Afana, 30 ‎e Mohammed Chakoura, 20 – sono stati uccisi dai colpi sparati dai tiratori scelti ‎sulla folla a Jabaliya e Khan Yunis. I feriti sono stati almeno 248, 15 dei quali ‎colpiti da proiettili. Israele ha denunciato il lancio di due granate contro una jeep e il ‎ferimento di un soldato per lo scoppio di un ordigno. La sua artiglieria ha fatto ‎fuoco su presunte postazioni di Hamas in particolare a Khouza.

‎ Qualche ora prima in Cisgiordania, alle porte di Gerusalemme Est, reparti della ‎polizia israeliana avevano chiuso gli accessi per Khan al Ahmar scatenando le ‎proteste degli abitanti e degli attivisti che provano a proteggere, con la loro ‎presenza, il villaggio beduino di cui la Corte suprema israeliana ha decretato la ‎demolizione oltre allo sgombero della comunità beduina che vive in quella località ‎da decine di anni. Almeno cinque manifestanti sono stati arrestati, diversi i contusi. ‎Due giorni fa, poco prima dell’alba, la polizia aveva rimosso e smantellato cinque ‎container portati dai palestinesi con l’intenzione di dare vita a un nuovo villaggio, ‎Wadi al Ahmar, accanto a Khan al Ahmar.

‎ Si aggrava lo scontro tra la leadership palestinese e l’Amministrazione Trump. ‎Jared Kushner, inviato speciale in Medio oriente e genero del presidente americano, ‎giovedì in un’intervista aveva affermato che il riconoscimento Usa di Gerusalemme ‎come capitale di Israele, il taglio di finanziamenti americani per centinaia di milioni ‎di dollari ai palestinesi e all’agenzia dell’Onu per i profughi Unrwa e la chiusura ‎dell’ufficio dell’Olp a Washington, non hanno diminuito le possibilità di ‎raggiungere un accordo, anzi, a suo dire le hanno accresciute. Ieri Nabil Abu ‎Rudeinah, portavoce del presidente palestinese Abu Mazen ha replicato che Kushner ‎conferma ‎«la sua totale ignoranza» del Medio oriente. ‎«Il popolo palestinese – ha ‎avvertito Abu Rudeinah – non accetterà pressioni, sanzioni o politiche di ricatto…le ‎mosse americane sono la prova di un pregiudizio cieco‎».

‎ In queste ore si riaccendono anche i riflettori sulla salute precaria dell’83enne Abu ‎Mazen. Il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, ieri in un’intervista ha rivelato ‎che a maggio il presidente palestinese si è trovato in condizioni molto critiche e ‎durante il suo ricovero per una polmonite a Ramallah il suo entourage aveva perso ‎ogni speranza.‎