“Margine Protettivo” ricorda tanto “Piombo fuso”: stragi di civili per “errore”, raid aerei incessanti, cannonate sulle case palestinesi, migliaia di famiglie in fuga. E quando si arriva a Farrahen, ad Est di Khan Yunis, a ridosso della no-go zone imposta da Israele all’interno di Gaza, il ricordo corre veloce a Vittorio Arrigoni. La gente di Farrahen ha paura, oggi come in quei giorni di gennaio del 2009, quando Vik ci raccontava dalle pagine del nostro giornale dei palestinesi sotto attacco in quella zona agricola. I bombardamenti aerei e i colpi di artiglieria non si sono fermati neanche per un’ora da quando, giovedì sera, le forze armate israeliane hanno lanciato “l’offensiva di terra”. Bombe e missili martellano questa fascia di territorio palestinese. I bulldozer stanno spianando i terreni, anche agricoli, e i mezzi blindati premono sui centri abitati, quasi a volerli spingere indietro, per allargare la zona interdetta. Mentre siamo a Farrahen arriva la notizia di un blitz tentato da un commando palestinese nei pressi del kibbutz Ein HaShalosha e respinto da una pattuglia israeliana. Due soldati e un membro del commando di Hamas sono rimasti uccisi nello scontro a fuoco. Hamas ieri ha continuano a lanciare razzi contro Israele e ha ucciso un beduino nei pressi di Dimona, nel Neghev.

 

Jaber nelle campagne di Farrahen ha la sua piccola fattoria dove Vittorio si fermava dopo le ore trascorse con gli agricoltori palestinesi che entravano, tra mille rischi, nei terreni coltivati nella “no-go zone. E non poche volte le pallottole, sparate dai militari, avevano sibilato a pochi centrimetri dal giovane attivista e scrittore italiano. Vorremmo andare al monumento dedicato a Vik che Jaber fece costruire in campagna dopo il suo assassinio. In quella zona però i carri armati però sparano ad ogni movimento, il pericolo è forte, dobbiamo rinunciare. Arij Abu Teyr, una signora che copre i capelli con bel velo di seta verde, ci conferma che si rischia la vita. «Vivo lì ma non era possibile restare oltre. Così mio marito ed io abbiamo preso i bambini e di corsa ci siamo trasferiti a casa di parenti. Ora ci vado ogni due giorni con il cuore in gola per dare da mangiare alle galline che altrimenti morirebbero».

 

Arrivano un pò di ragazzi palestinesi. Hanno voglia di scherzare. Qualcuno ci chiede di Pirlo, altri che fine a fatto Baggio. La signora Abu Teyr ci racconta dell’abitazione alle sue spalle, di proprietà del cugino, e distrutta da una bomba da mezza tonnellata sganciata qualche giorno fa da un F-16 israeliano. «Era una palazzina di quattro piani, abitata da cinque famiglie. Non ci vivevano combattenti ma persone normali – spiega la donna – in tutto 50 persone…Mio cugino ha ricevuto una telefonata dagli israeliani che annunciava un attacco aereo entro pochi minuti. Tra le urle di paura dei bambini sono usciti tutti e dopo qualche secondo è arrivata la bomba».

 

La Striscia di Gaza è sempre più una striscia di sangue. Nelle ultime 72 ore i palestinesi uccisi sono state molte decine – oltre 340 in totale dall’8 luglio – soprattutto a Khan Yunis, Rafah, Beit Hanoun e in altri centri a ridosso nella fascia dove si muovono le forze armate israeliane. I mezzi corazzati entrano ed escono, spesso a protezione dei giganteschi bulldozer militari che starebbero distruggendo le lunghe gallerie sotterranee scavate dagli uomini di Hamas per spostare da un punto all’altro le rampe dei razzi o per lanciare attacchi nel territorio israeliano. Giornali e televisioni riportano foto, grafici e disegni per illustrare i risultati di queste incursioni attuate in territorio palestinese. Non spiegano però perchè queste operazioni di distruzione dei tunnel, descritte come “chirurgiche”, siano accompagnate da stragi gravissime di civili palestinesi. Passando ieri per il centro di Khan Yunis abbiamo seguito i funerali dei nove membri della famiglia Nasser, uccisi nella notte di venerdì da una cannonata sparata sulla loro abitazione. Lunghi cortei funebri attraversano ogni giorno le città palestinesi con le salme di uomini, donne e bambini uccisi dai bombardamenti, come avveniva nel 2009 durante “Piombo fuso”.

 

Secondo le Nazioni Unite i civili sono i 2/3 del totale delle vittime palestinesi. Il Centro per i diritti umani di Gaza, considerando il numero di morti fino a ieri mattina, calcola nell’82% il totale dei civili uccisi, di cui il 23% bambini. Le donne sono l’11%. L’Unicef è nuovamente intervenuta per denunciare che «i servizi di base per i bambini sono sotto attacco. Le fatiscenti infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza hanno subito danni, aumentando il rischio di malattie di origine idrica». Inoltre la metà del pompaggio dei liquami e dei sistemi di trattamento delle acque di scarico non sono più funzionanti e circa 900.000 persone sono senza acqua corrente. Senza dimenticare che oltre 1.780 famiglie hanno visto le loro case distrutte o gravemente danneggiate e che 55 mila palestinesi sono sfollati e vivono in condizioni molto difficili, nelle scuole dell’Unrwa (Onu). Solo i più fortunati trovano ospitalità a casa di parenti o amici che abitano in zone meno esposte. Dietro la violenza dell’attacco israeliano sta venendo fuori l’emergenza umanitaria tanto temuta.

 

Per i vertici israeliani l’alto numero di vittime civili sarebbe responsabilità solo di Hamas, che, a loro dire, userebbero i civili palestinesi come “scudi umani”. Prove inoppugnabili di tale pratica e della sua diffusione però non le abbiamo viste ancora. Così come non sappiamo quali elementi concreti abbia il generale Yoad Mordechai per affermare, come ha fatto ieri ai microfoni della Bbc, che «I dirigenti di Hamas si trovano sotto l’ospedale Shifa di Gaza, dove ci sono civili e bambini…un loro capo ha utilizzato un’ambulanza per darsi alla fuga….il comandante (militare) di Hamas, Marwan Issa, si trova in una casa, con bambini». Se è vero che Issa si trova in una casa con i suoi figli perchè questa casa non è stata ancora colpita dato che i comandi israeliani non hanno mai nascosto di volere eliminare i capi di Hamas. Non certo per la presenza di civili, perchè sino ad oggi l’aviazione israeliana ha centrato centinaia di abitazioni che in numerosi casi erano ancora occupate.

 

E la tregua? Ormai il cessate il fuoco tra Hamas e Israele è solo un esercizio per i ministri degli esteri di vari paesi. La diplomazia internazionale comunque si schiera a sostegno del piano egiziano di cessate il fuoco che chiede la cessazione delle ostilità come condizione per l’avvio di una trattativa ampia, senza accogliere in alcun modo le richieste di Hamas e, di riflesso, dei palestinesi di Gaza sotto assedio. La ministra degli esteri italiana, Federica Mogherini, a nome della presidenza di turno dell’Unione europea, ha detto di ritenere indispensabile che Hamas accolga l’invito del presidente palestinese Mahmud Abbas di accettare la tregua proposta dal Cairo. Sono d’accordo anche Stati Uniti e Francia e ieri si attendeva l’arrivo nella regione del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon. La proposta fa venire il mal di pancia al movimento islamico che a inizio settimana aveva già respinto l’iniziativa egiziana. «Sappiamo che soluzione passa per l’Egitto ma non possiamo accettare una proposta che descrive come terrorismo la nostra resistenza a Israele», ha spiegato il numero due di Hamas, Musa Abu Marzuk. Il capo politico di Hamas Khaled Meshal ha detto che il gruppo non accetterà una tregua fino a che Israele non toglierà il blocco imposto a Gaza e non libererà i detenuti palestinesi riarrestati dopo essere stati liberati nello scambio per i rilascio del soldato Gilad Shalit. Hamas chiede diverse cose ma a Gaza sanno che i suoi dirigenti potrebbero “accontentarsi” dell’apertura del valico di Rafah e del rilancio del dialogo con l’Egitto. Un risultato che potrebbe consentirgli di gridare vittoria. Il Cairo e Tel Aviv vogliono impedire proprio questo.