«Non esiste un modo per distinguere la sottrazione dall’incompiutezza». Ciò di cui si è sempre stati privati da quello che non è mai arrivato, non si è neppure annunciato all’orizzonte. Abdou ne fa esperienza lungo le traiettorie della sua «urbex» personale, l’esplorazione urbana che lo porta ad attraversare i terrain vague della metropoli alla ricerca di edifici dismessi, in rovina, o, come in questo caso, abbandonati a sé stessi ancor prima di qualunque cerimonia di inaugurazione. È qui, in questi angoli che la città ha lasciato in sospeso che Roma sembra rivelare qualcosa di intimo e selvaggio: a un tempo i propri segreti più inconfessabili e il proprio brutale, e a prima vista insospettabile, candore.

SI POTREBBE PENSARE sia questo senso di inappagato compimento, qualcosa in sospeso tra l’irraggiungibile e il mai rivelato a dominare l’orizzonte nel quale si muovono i personaggi del nuovo romanzo di Tommaso Giagni, I tuoni (Ponte alle Grazie, pp. 186, euro 14,90), ambientato nel «Rettangolo», una serie di torri di otto piani di edilizia popolare sorte da tempo nel «Quartiere», imprecisata periferia del quadrante orientale della metropoli capitolina, non lontana dal corso dell’Aniene come dal Raccordo anulare.

L’inquietudine che muove Abdou, Manuel e Flaviano, i tre protagonisti della vicenda, e che Giagni rende con un linguaggio visivo e essenziale, ha invece i contorni di una normalità incerta ma a tratti gioiosa, dove il confine esperienziale delle loro giovani vite si trasferisce sulla mappa del territorio circostante, delimitandone il raggio d’azione ad una sorta di biografia collettiva radicata tra il cemento e la «quasi campagna» di questo lembo estremo di città.

«Dal terrazzo in cima al Rettangolo non distinguono nulla del centro di Roma: campanili, colli e ministeri sono nascosti dalla distesa composita di palazzi che i costruttori hanno seminato per decenni». Il cuore della capitale, alla cui scoperta si lanceranno in un notte di allegria, come turisti che ne abbiano riservato la visita tutta per sé, riescono ad individuarlo in prospettiva solo grazie ad un alone livido di smog che lo sovrasta, devono immaginarlo, ma «possono vederne i battiti».

MA LA LORO, DI VITA, batte al ritmo del «Rettangolo» che ne contiene e racconta i destini. Quello di Abdu, arrivato dalla Costa d’Avorio con un gommone che abita con la madre e la nonna nella zona della Grotta, in locali che erano stati pensati come cantine e garage e dove ora la sua è una delle poche famiglie africane accanto a romeni, serbi e bosniaci. Quello di Manuel, egiziano di Roma che vive nella Spina, la striscia che avrebbe dovuto costituire la colonna vertebrale dei commerci del quartiere, ma dove l’unico «negozio» sopravvissuto è il frutta e verdura di suo padre, nel cui retro vive l’intera famiglia composta da sei persone. E, infine, quello di Flaviano, rimasto a vivere con il padre che ricorda con nostalgia davanti a una bottiglia di liquore «il rispetto» che gli portavano i vicini quando era ancora un piccolo malvivente, dopo che la madre si è trovata un altro compagno e se ne è andata.

Il «Rettangolo» è un piccolo mondo, delimitato dal «campo dei trans» e dalle baracche degli zingari, prima del fiume, all’interno del quale i tre ragazzi si sono riconosciuti e scelti reciprocamente, cogliendo la sensibilità e l’innocenza negli occhi l’uno dell’altro. Qualcosa che li rende parte di quella realtà, ma contemporaneamente diversi, lanciati oltre i limiti che gli amici con cui sono cresciuti continuano a considerare invalicabili: «Pascolano fuori dal bar coi Fernet come i padri, hanno diamanti alle orecchie e crocefissi su catenine d’oro, si separano subito dopo aver avuto i figli e nei weekend li portano in sala pesi dove infamano le donne». Perfino il «Reuccio» che si atteggia a boss del territorio, con i suoi sgherri molesti gonfi di vino, nello sguardo dei ragazzi assume un che di familiare e perfino rassicurante.

PERCHÉ LA MINACCIA per Abdou, Manuel e Flaviano, le loro famiglie e tutti gli abitanti del «Rettangolo» non ha il volto della periferia popolare, bensì quello dei nuovi insediamenti middle class che stanno sorgendo tutto intorno ai palazzoni di cemento della zona.

COME nel Condominio di Ballard, e nelle ricorrenti campagne in tal senso delle nuove destre, il risentimento e la violenza covano all’ombra della denuncia del degrado, degli appelli in nome della sicurezza, dell’annunciato desiderio di fare «piazza pulita». La «rivolta» veste i panni di una gentrificazione in divisa che sogna un orizzonte coerente e omogeneo dove povertà è sinonimo di devianza, diversità di pericolo. È allora, e solo allora, che questo pezzo di città stretto tra le autostrade urbane e un vecchio fiume inquinato assume davvero un aspetto sinistro e minaccioso.