L’inizio del concorso internazionale è fortemente autobiografico e davvero coinvolgente. Partiamo dalla Cina. Era il 2012 quando proprio a Locarno venne presentato in concorso When Night Falls di Ying Liang, che ottenne un premio per la miglior regia e uno per la migliore interprete Nai An. Storia di un uomo condannato a morte per avere ucciso dei poliziotti, raccontata però dal punto di vista della madre del protagonista. Alle autorità cinesi il film non piacque. Tentarono anche di acquisire i diritti internazionali per toglierlo dalla circolazione. Non riuscirono. Da allora Ying Liang vive in esilio a Hong Kong, dove il governo centrale ha le mani un po’ più legate. Dopo tutto questo tempo il regista è tornato a Locarno con un nuovo film: A family tour.

Protagonista una famiglia, marito originario di Hong Kong, moglie regista, lì in esilio per avere fatto un film su un condannato a morte, figlio di quattro anni e l’anziana mamma di lei (interpretata sempre da Nai An) che vive ancora in madrepatria, è malata e non ha mai visto il nipotino. Con un escamotage hanno fatto in modo di potersi ritrovare a Taiwan, fosse anche l’ultima volta. Mamma arriva come turista, la figlia sbarca per un festival con famiglia annessa. Devono comunque muoversi con cautela perché l’autobus che si aggira con guida per i luoghi turistici della città è una piccola Cina e loro che seguono in taxi sono un po’ sospetti. A Taiwan, a Hong Kong, in Cina parlano la stessa lingua, ma il modo di pensare e di approcciare il mondo è profondamente diverso. Ying Liang ha solo leggermente modificato la sua storia, anche lui ha potuto rivedere la madre dopo anni in questo modo, con un senso di colpa per le proprie scelte che implicano dolorose conseguenze.

Quando nel film viene chiesto alla regista se si consideri cinese o di Hong Kong lei replica dicendo di sentirsi «straniera». E proprio questo sentirsi stranieri, estranei in casa propria è la chiave emozionale dell’intero film. Più semplice ma comunque efficace Tarde para morir joven della regista cilena Dominga Sotomayor che ci conduce in un luogo stravagante: una sorta di comunità che vive ai margini della città, presso le Ande, rifiutando la logica dominante. Non hanno elettricità, anche l’acqua è un problema, campano modestamente con attività artigianali e stanno per festeggiare tutti insieme le feste natalizie e l’arrivo del nuovo anno.

Il film non lo esplicita, ma siamo nel 1990, la dittatura di Pinochet è appena stata sconfitta e si respira voglia di libertà. Tra loro c’è Sofia, adolescente che soffre per l’assenza della madre che ha fatto altre scelte, corteggiata dal coetaneo Lucas, ma affascinata dal più adulto e trasgressivo Ignacio. La comunità è composta da personaggi che cercano una propria strada verso la felicità, ma il tratto più forte è quello dei bambini che vivono in una realtà destinata a segnarli. Un po’ come è successo alla regista che a suo tempo, a cinque anni, aveva vissuto con i genitori un’esperienza analoga, ritrovata nella memoria a partire da un vecchio Vhs, ora divenuta film a soggetto.