La riforma del senato e la riforma del Titolo V della Costituzione, i temi della direzione del Pd di ieri, finiscono presto in secondo piano: la prima raccoglie più dubbi che entusiasmi, persino il veltroniano Giorgio Tonini, insospettabile di ostilità verso il segretario, ammette un «dissenso temperato», che Renzi interpreta per quello che è, «un dissenso radicale» detto con un «eccesso di democristianizzazione».

Subito la direzione si trasforma in quello che il leader voleva evitare, e cioè lo scontro sul rapporto governo-Pd. Tema cruciale, a rischio di scatenare una slavina a Palazzo Chigi, in questi giorni obiettivo di attacchi convergenti, dalla Confindustria in già. Ma ineludibile. Per questo Enrico Letta, rompendo le consuetudini, va al Nazareno come la montagna di Maometto. E mette le carte in tavola: «Per il governo galleggiare non è possibile, così i problemi non si risolvono». Lui ci sta a fare la sua parte. «La mia disponibilità a lavorare perché la comunità vinca, in squadra è totale». Ma quale parte gli ha assegnato Renzi?
Il guaio, il «non detto» secondo Matteo Orfini, è infatti che Renzi non il gioco di squadra non lo fa: lo ha dimostrato imponendo alle camere la ’sua’ agenda di governo (riforma elettorale, riforme, poi sarà jobs act) e ignorando platealmente l’«impegno 2014» che all’inizio dell’anno Letta aveva presentato con squilli di tromba come la nuova ripartenza (la terza dall’inizio della legislatura, solo 10 mesi fa).

Fin qui Renzi si è difeso giurando lealtà al governo; ma tirandogli addosso critiche mortali («Sono stati 10 mesi di fallimenti», ha detto alla prima direzione). Ma il governo non può andare avanti così, ovvero non può stare fermo di qui al 2015. Da due giorni la stampa arzigogola sulla disponibilità del sindaco di Firenze a sostituire in corsa Letta a Palazzo. Anche gli alleati di governo chiedono di stringere i tempi della verifica, e del rimpasto. Che però Renzi non vuole sentire pronunciare. Soprattutto non vuole parteciparvi, rovesciando su Letta tutta la responsabilità delle scelte. Di tanta lealtà renziana il governo rischia di implodere.

In direzione l’opposizione parla con le sue diverse voci. Stefano Fassina:«Chiedo sia a Renzi che a Letta: discutiamo delle revisioni programmatiche da fare. Se non si trova un’intesa assumiamoci la responsabilità di dire che in questo parlamento non ci sono le condizioni per un governo efficace, non facciamoci logorare tutti e scegliamo la strada elettorale». Gianni Cuperlo: «Il rapporto tra Pd e governo non riguarda solo noi ma sempre di più la tenuta del paese. Reggiamo così? Abbiamo due strade, forse più di due: o una vera ripartenza del governo. Letta vuole fare questo sforzo, è in grado di farlo? Altrimenti si discuta, c’è chi ha parlato di andare a votare o c’è un’altra ipotesi di cui parlano tutti, il Renzi I. Renzi assuma un’iniziativa chiara».

La «staffetta», altra parola parola primorepubblicana che fa venire le bolle a Renzi, una polpetta avvelenata che lo costringerebbe nei panni del non amato D’Alema ’98, che andò al governo senza passare per le urne. «Le elezioni non sono un’opzione», insiste Orfini, «perché nascerebbero dal nostro fallimento: possiamo avere anche Maradona, ma se fallisci, perdi. Prendiamoci il tempo che serve per fare una discussione per far ripartire davvero il governo. Senza ambiguità, giochi o tattica». E non è solo l’opposizione a invitarlo a scegliere. Goffredo Bettini, alla sua rentrée in direzione dopo gli anni di Veltroni, lo esorta a non consumare «la riapertura di dialogo» con i cittadini. A non lasciare il paese languire con un governo «innaturale e poco rappresentantivo», «il moderatismo in certe occasioni è il massimo dell’avventurismo».

Renzi capisce l’antifona, e stavolta sorveglia con attenzione le conclusioni («Guida piano» gli ha detto il portavoce della segreteria Lorenzo Guerini, per evitargli qualche parola di troppo). E le conclusioni sono: «La ricostruzione che il problema del governo sia la mancanza di serietà del Pd è inaccettabile. Serve chiarezza da parte del governo». Lui allo «schema di Letta» si era attenuto, fin qui. «Vogliamo cambiare schema? Disponibilità totale. Se vogliamo giocare un altro schema, confermare quello attuale o dire che si va alle elezioni, possiamo dedicare la direzione del 20 febbraio». Ma per quella data deve arrivare il primo sì alla legge elettorale, il test che Renzi si aspetta dai suoi e dal parlamento. Chi rallenterà – nell’ottica renziana la discussione e gli emendamenti sono solo rallentamenti – si assumerà la responsabilità di gelare «l’unica speranza del Pd e del paese». Cioè il pacchetto di riforme con cui voleva correre verso le amministrative e le europee per la prima prova del nove della sua segreteria. Il suo sì al confronto è una sfida: per il 20 la discussione sarà «franca e trasparente».