Ultimo dei festival dell’estate, prima della pausa d’agosto, quello che ancora si chiama Drodesera è anche il festival che maggiormente ha cercato di preservare la propria identità. Un’identità che ormai si identifica con la Centrale Fies, l’archeologica struttura industriale in mezzo alle montagne del Trentino dove da più di un decennio (o saranno quasi venti?) ha trovato sede. Negli ultimi anni è stato il luogo che più di altri e con più continuità ha prestato attenzione alla nuova generazione della scena italiana.

Che oggi è un po’ meno nuova, sicché ai ventenni di ieri non si dice più «come siete belli» ma si chiede «cosa sapete fare». E qualche risposta non si può eludere. Pathosformel presenta qui una retrospettiva di tutti i propri lavori, mentre la formazione annuncia la propria sparizione e gli artefici vanno in cerca di altre avventure. Tornano Dewey Dell e Codice Ivan e Anagoor (il loro Virgilio brucia si vedrà anche al B.Motion di Bassano del Grappa e a Romaeuropa) e ancora Teatro Sotterraneo con il lavoro firmato insieme al lettone Valters Silis. Ma non è un caso che si sia voluto intitolare questa edizione del festival «SkillBuilding», con chiaro riferimento alla costruzione di nuove competenze.

Presenza abituale al festival è anche quella di Erna Omarsdottir. Della metamorfica artista islandese abbiamo nel tempo conosciuto tante facce. Interprete di creazioni di Jan Fabre, coreografa con un proprio gruppo, cantante di una band rock molto metallica e urlante. Quella proposta qui con la compagnia Shalala, lo spettacolosiintitola To the bone, sfugge a una possibile definizione. L’inizio è una sorta di rito magico o di cerimonia di possessione, un gruppo luttuoso avanza ondeggiando nell’oscurità, si raccoglie in cerchio scuotendo i lunghi capelli in un rimbombo di cupi suoni elettronici e in un lampeggiare di tableaux vivants come il Living d’antan. Dura poco, appena una quindicina di minuti.

Poi in scena compaiono un divano e un paio di poltrone e una presentatrice alta e bionda dà il via a una sorta di talk-show televisivo, con interviste agli interpreti sulla loro vita e dimostrazioni di lavoro su come controllare le emozioni tramite l’urlo e apparizioni di una drag queen o del guru della piccola comunità urlante che si dice registrata come ente confessionale interessato a «espressioni senza limiti». Ma lo slittare verso un pizzico di follia non basta a riscattare la sostanziale inutilità dell’operazione.

Il tema che corre sotto traccia èla biografia, però moltiplicata per così dire, resa plurale, sottratta al suo carattere individuale per divenire narrazione collettiva. Gym club dello svizzero Massimo Furlan ad esempio evoca forse alla lontana l’icona sbiadita di Arnold Schwarzenegger, attore e culturista e da ultimo anche governatore della California di impronta reaganiana, per chi ricorda ancora quegli anni o ha letto appunto la sua recente autobiografia.

Cinque disgraziati dai corpi assai poco atletici si affaticano in esercizi ginnici comandati da un’autoritaria istruttrice asiatica, che urla in una lingua incomprensibile e batte i pugni sui materassini sovrastando anche la fanfara che impone un ritmo militaresco. Il loro sogno di un corpo scolpito si traduce in una derisoria imbottitura di gommapiuma. Finale ironicamente consolatorio che appanna un poco ciò che di più vero ci dice la performance, che tutti quei gesti, quelli dettati da una visibile maestria e la loro riproduzione imperfetta, sono ugualmente costruiti, non vi è nulla di improvvisato o di casuale.

La rivelazione di questa edizione del festival è però il collettivo di Anversa che si è dato nome Berlin, ovvero Bart Baele e Yves Degryse, attivo in realtà da una decina d’anni con un lavoro performativo che si muove sul confine fra finzione e realtà. In Perhaps all the dragons sono trenta le storie, le biografie se si preferisce, che si rendono manifeste contemporaneamente. Tante quanti sono gli spettatori, seduti davanti ad altrettanti monitor dal lato interno di un tavolo che forma un anello ellittico, rivolti insomma verso l’esterno, senza possibilità di guardarsi l’uno con l’altro.

A colloquio con la persona che parla da quel monitor, e solo da quello. E sono storie non comuni, per così dire, ma che proprio dal racconto in prima persona traggono la loro normalità. Una donna soldato danese che tiene coperti gli occhi da un cappellino, specialista nell’uccisione a distanza di un obiettivo mirato… L’assistente di un chirurgo che ha sperimentato il trapianto della testa di una scimmia… Un matematico tedesco che ha elaborato una regola statistica per approssimare la ricerca del vero amore…

Uno psicologo di Budapest… Un neurochirurgo californiano… Il primo incontro è casuale, dipende dal posto che si è scelto; quelli successivi seguono invece una logica combinatoria predeterminata che fa balenare anche improvvisi nessi fra una storia e l’altra. Per quattro volte ci si scambia di posto, magari spiando quegli altri che ci stanno ai lati, a cui però non possiamo prestare attenzione.

Alla fine si alzano tutti, dentro i monitor, e intonano un corale «goodbye» e si inchinano come si fa a teatro. Ventinove storie su trenta sono vere, c’è scritto nella cartolina che si riceve uscendo. C’è anche un codice per accedere a un sito dove si possono vedere tutte le trenta storie. Ma perché farlo? Quando è tanto più bello sognarle… Cio che rende coinvolgente il lavoro di Berlin, anche per chi nutre qualche sospetto verso il teatro «multimediale», è proprio la sua incompletezza. La consapevolezza cioè che non si può arrivare al fondo di tutte le storie, anche quelle che ci toccano possiamo coglierle solo per frammenti. E questo aumenta forse la nostra responsabilità.