È uno di quei paradossi classici della politica italiana: una destra che tutti i sondaggi continuano a registrare come maggioritaria nel Paese e che aveva di fronte una sfida elettorale tanto importante quanto nel complesso facile rischia invece la disintegrazione. L’esplosione di una coalizione dopo una tornata elettorale deludente o peggio non è una novità: è nell’ordine delle cose. Ma un’alleanza che si frantuma alla vigilia dell’apertura delle urne, quando ogni regola di semplice buonsenso impone mostrarsi cementati e compatti, non si era mai vista e non è facile che si veda ancora.

LA RAFFICA DI ERRORI della destra è lunghissima e ciascun partito ha fatto la propria parte. La scelta di candidati debolissimi è il più vistoso e il più esiziale tra quei grossolani sbagli. All’origine, però, c’è non un semplice e casuale errore ma una scelta suicida: quella di sfruttare le amministrative non per mettere a terra gli avversari, ipotecando così la vittoria alle prossime politiche, ma per contarsi, combattere una battaglia tutta interna alla coalizione, regolare i conti, mettere in palio la leadership dell’alleanza. Tutto il resto, la scelta incomprensibile di candidati inesistenti, la campagna elettorale sgangherata e in ordine sparso, sono conseguenze di quell’impostazione iniziale.

Il governo Draghi ha fatto il resto e portato una situazione già caotica alle estreme conseguenze. Un partito, Fi, che si immagina come il più «draghiano» di tutti. Il partito nei sondaggi ancora maggioritario sia pur di poco, la Lega, diviso in una metà tanto draghiana quanto quel che resta di Fi e un’altra metà, leader incluso, in stato confusionale, a seconda dell’ora governista o oppositore e quindi né l’una né l’altra cosa. Il terzo, FdI, rampante e premiato dai sondaggi ma a prezzo carissimo: la chiusura in quel ghetto asfittico nel quale vegetano, nonostante le percentuali a volte davvero alte, i partiti «sovranisti» della destra europea. Una campagna elettorale davvero comune, in queste condizioni, era al di là delle possibilità reali anche per leader più capaci e meno sprovveduti di quelli in questione.

SULLA CARTA il regolamento di i conti passa per chi, tra Lega e FdI, raccoglierà più consensi nel voto di lista. È un elemento davvero centrale. Se la Lega dovesse confermare il primato senza sentire sul collo il fiato di sorella Giorgia, le traballanti posizioni di Salvini nel partito si consoliderebbero. Il leader insisterebbe con la sua scommessa di fare della Lega un partito populista nazionale non più troppo condizionato dagli interessi dell’originario partito del nord. Il tentativo di correre subito alle politiche con questa legge elettorale sarebbe inesorabile. In caso contrario, ciascuno di questi elementi si presenterebbe lo stesso, però specularmente capovolto.

Ma la conta secca non basta. Entreranno in gioco una quantità di altri fattori. Se Beppe Sala dovesse farcela al primo turno, lo scacco per la Lega sarebbe matto: la sconfitta a Milano era prevista, il non arrivare neppure al ballottaggio assolutamente no. Se poi FdI, partito a forte caratura meridionale, dovesse superare il nordico Carroccio nella capitale lombarda sarebbe un «Si salvi chi può». Il conto dei voti andrà comunque disaggregato per aree geografiche: risultati molto deludenti al sud e nel centro-sud basterebbero a sentenziare il fallimento irreversibile dell’intera strategia sulla quale Salvini si muove da quando ha preso in mano, e risollevato, una Lega Nord agonizzante.

PER MELONI, IN ASCESA e con la rendita garantita dal monopolio dell’opposizione, la strada sembrava tutta in discesa. Non lo è. La decisione di non giocare neppure la partita a Roma la espone al rischio di un risultato molto peggiore delle aspettative e in quel caso gli alleati, quale che sia l’esito del voto di lista, non esiteranno a presentarle il conto, con tanto di dimostrazione concreta di cosa vorrebbe dire per lei lasciarsi chiudere nel ghetto, senza più i buoni uffici di Fi e di quella parte della Lega considerata accettabile dai vari e influenti poteri italiani ed europei. Anche la sconfitta a Roma di Michetti era messa in conto. Una rotta però sarebbe tutt’altra cosa.

LA SCONFITTA della coalizione in quasi tutte le metropoli, eventualità probabile, creerebbe comunque un problema enorme. Che si moltiplicherebbe se la destra non riuscisse neppure a conquistare il punto della bandiera: Torino. In ogni caso, subito dopo le elezioni la destra si troverà a un bivio. O dare vita a una vera alleanza senza più competizione interna oppure rassegnarsi a correre ciascuno per sé, con il proporzionale, alle prossime elezioni. Strade opposte, nessuna delle quali però mette una coalizione mai nata davvero al riparo dal pericolo di svaporare anche sulla carta.