«Le leggi le fa il parlamento, se i sindacalisti vogliono trattare le leggi si facciano eleggere». Matteo Renzi ha tentato di chiudere così lo scontro sulla delega lavoro con la Cgil. Con un consiglio ingannevole. Perché sulle leggi il parlamento non tocca più palla. Il potere legislativo è già altrove.

Il dettato di Palazzo Chigi

Entro la fine dell’anno il governo Renzi avrà eguagliato in durata il governo Letta, rimasto in carica nove mesi e mezzo. Il sito di analisi statistica OpenPolis ha conteggiato il lavoro delle due camere, dal 28 aprile 2013 a oggi, e ha così riassunto: «Il governo fa le leggi, il parlamento sta a guardare». È un giudizio riferito all’intera durata della legislatura. Guardando al solo governo Renzi si scopre che ha già battuto il record del suo predecessore. Ha fatto approvare definitivamente dalle camere 37 leggi di iniziativa governativa mentre solo 9 sono quelle nate in parlamento. Al totale di fonte governativa si possono aggiungere – con la certezza che saranno approvate entro l’anno – anche la legge di stabilità e il collegato sulla green economy e, con solo un po’ meno certezza, il cosiddetto jobs act. Saranno così quaranta le leggi attribuibili all’esecutivo, l’82% del totale (durante il governo Letta furono 35). Non basta. Delle nove proposte di legge nate in parlamento e approvate definitivamente durante il governo Renzi, due sono leggi delega (fisco e carcere), cioè affidano l’ultima parola di nuovo al governo. Cinque sono di iniziativa del Pd, il partito del presidente del Consiglio, e sono per lo più eredità del 2013 su argomenti minori (come l’istituzione di una commissione d’inchiesta o di un comitato per le celebrazioni). Due sole leggi portano la firma delle opposizioni e riguardano la basilica di Vicenza (Forza Italia) e una deroga per gli esodati (Lega).
Quanto alle leggi partite da palazzo Chigi, 13 sono ratifiche di trattati internazionali (altre quattro sono state annunciate nell’ultimo consiglio dei ministri). Diciotto sono decreti legge (altri due sono stati annunciati). Approvati definitivamente anche una legge delega (due volendo aggiungere il jobs act) e cinque disegni di legge (sette contando stabilità e green economy in dirittura d’arrivo).
Quando non scrive direttamente le leggi, il governo le detta al parlamento. Nel caso della responsabilità civile dei magistrati, ad esempio il governo Renzi ha annunciato un intervento a giugno, presentandolo però solo a metà settembre. Nel frattempo la commissione giustizia al senato discuteva da un anno una proposta di legge di riforma della inefficace legge Vassalli; il guardasigilli Orlando ha teorizzato che i senatori si sarebbero dovuti fermare al semplice udire l’annuncio del governo. Non l’hanno fatto e nell’ultimo giorno utile il ministro ha presentato un maxi emendamento che adegua l’iniziativa parlamentare alle intenzioni del governo. Non solo: ha accompagnato la modifica con una minaccia: o il senato si adegua oppure è pronto un decreto legge.

Due carrozze per un trasloco

Il potere legislativo sta dunque traslocando sempre più velocemente e ogni nuovo governo fa segnare un record. L’82% di Renzi supera le percentuali di Letta e ancor di più quelle con le quali si è chiusa la legislatura precedente (durante la quale, calcolo di OpenPolis, il 74% delle leggi è stato di iniziativa governativa). Due sono i veicoli con i quali lo spostamento si compie: il decreto legge e la fiducia.

Con lo strumento previsto in Costituzione per «casi straordinari di necessità e urgenza», il governo Renzi si è occupato tra l’altro di finanza locale, scuola, competitività, ospedali psichiatrici, stupefacenti, uffici giudiziari, carcere, stadi, concessioni autostradali. Ultimamente ha abbozzato per decreto anche una «riforma», l’ennesima, del processo civile. Per 22 volte il governo ha posto la questione di fiducia sulla conversione di un decreto. Sette decreti sono stati approvati solo mediante fiducia, sia alla camera che al senato. Due di questi (lavoro e competitività) hanno avuto bisogno, per via della staffetta tra le camere, di ben tre voti di fiducia. In totale il governo Renzi ha chiesto la fiducia 27 volte, record stratosferico in 8 mesi e mezzo; Letta in 9 mesi e mezzo vi è ricorso 14 volte. Lo strumento non è certo nuovo: previsto nei regolamenti dagli anni Settanta è esploso al tempo del secondo governo Berlusconi soprattutto per controllare la maggioranza, e così è stato sempre utilizzato. Ma non era ancora diventato il mezzo prevalente di approvazione di una legge. Con Renzi è la prassi. Il presidente della Repubblica Napolitano è intervenuto contro l’abuso di decreti e fiducie dal 2008 praticamente ogni anno, per richiamare diversi governi; da due anni non affronta più l’argomento. Renzi ha persino recuperato l’antico precedente (1986) della fiducia in negativo, usandolo per bloccare un emendamento. E ha messo la fiducia anche su una legge delega, il jobs act al senato (alla camera è annunciato il bis). È andata così: il governo ha chiesto di essere delegato a cambiare lo statuto dei lavoratori. La commissione del senato ha proposto di circoscrivere l’ambito della delega, per avvicinarla a quello che prevede la Costituzione (art. 76, «determinazione di principi e criteri direttivi»). Il governo ha insistito per avere una delega in bianco, non ha citato nel testo l’articolo 18 ma premier e ministri hanno chiarito l’intenzione, il lavoro del senato è stato azzerato e imposta la fiducia. Il governo ha già pronti i decreti delegati e il passaggio successivo nelle commissioni sarà una formalità. E così, malgrado si stia parlando di un caposaldo del diritto del lavoro nella Repubblica fondata sul lavoro, i parlamentari non hanno avuto alcuna possibilità di intervento. E anche alcuni di loro guardano alla Corte Costituzionale, l’unica più che l’ultima spiaggia.

Nuove tecniche di spoliazione

La Consulta secondo il disegno di legge costituzionale approvato prima dell’estate al senato (con strappi al regolamento e una fretta inutile, visto che sonnecchia alla camera) potrà bloccare leggi palesemente incostituzionali prima della promulgazione, ma solo nel caso di leggi elettorali. È questo uno dei rari strumenti di garanzia in più proposti dal governo Renzi, che anche nel caso della riforma della Costituzione ha assunto direttamente l’iniziativa (cambiando 44 articoli su 139). Accanto ai grandi temi come la sostituzione di una camera eletta dai cittadini con una selezionata dalle élite territoriali di partito, la proposta contiene una novità minore perfettamente coerente con la migrazione del potere legislativo. Si tratta del cosiddetto voto a data certa: l’esecutivo potrà imporre al parlamento di votare entro 60 giorni (o meno) un testo considerato essenziale per l’attuazione del programma, facendo decadere tutti gli emendamenti approvati nel frattempo. Lo strumento non sostituisce, ma affianca i decreti legge.

Il voto a data certa è previsto anche nella bozza di nuovo regolamento della camera, con l’obiettivo dichiarato di limitare il ricorso del governo ai decreti e alle fiducie. Ma è solo una speranza: non viene introdotta alcuna limitazione agli strumenti di cui oggi si abusa. Al contrario il nuovo regolamento toglie molto spazio di manovra alle opposizioni, cancellando in un colpo solo i classici metodi di ostruzionismo come gli ordini del giorno in caso di fiducia e il dibattito sul processo verbale. Eppure, con le regole attuali e anche oltre le regole, il filibustering è già addomesticato, prova ne sia l’approvazione al senato proprio della riforma costituzionale, quando il presidente Grasso per favorire il governo si assegnò un potere non previsto per abbattere a migliaia gli emendamenti delle opposizioni. Il nuovo regolamento di Montecitorio, in ogni caso, è stato fermato in dirittura d’arrivo malgrado maggioranza e Forza Italia si dicano favorevoli: deve infatti essere approvata a voto segreto e il governo sa che quello è l’ultimo rifugio di un parlamento tenuto al guinzaglio.