Se c’è una funzione di un festival è quello di fornire da sismografo, per quanto parziale, delle tendenze in atto. Da questo punto di vista la ventiduesima edizione di Jazz & Wine of Peace di Cormons sancisce la polverizzazione degli stili e la spinta centrifuga verso altre musiche. I concerti serali al Teatro Comunale hanno confermato l’involuzione di Bill Frisell, l’inossidabile carisma di John McLaughlin e la classe e l’eleganza di Dave Holland. Quest’ultimo con il suo Cross Currents Trio ha presentato il nuovo disco Good Hope, un progetto transculturale con lo specialista delle tablas Zakir Hussain e il sassofonista Chris Potter fornendo una superba prova di come si possano fondere linguaggi e culture diverse sfuggendo facili esotismi. Nei concerti diurni nelle cantine, vera originalità del festival, molte le proposte interessanti. Daniele D’Agaro ha presentato un progetto su cui è al lavoro da anni e che vede incontrare il suo trio Ultramarine, egli ai clarinetti, Denis Biason alle chitarre e Luigi Vitale e balafon e marimba, con il chioccolatore Camillo Prosdocimo. Pratica venatoria oggi divenuta disciplina sportiva, l’imitazione del canto degli uccelli rimanda a una tradizione assai radicata in Italia, in particolare nel Nordest. D’Agaro ha avuto l’intuizione geniale di immaginare l’imitatore come un quarto musicista. Tra trascrizioni ornitologiche, classici ellingtoniani, blues e originali del leader la musica sorprende e incanta, lontana da tentazioni ambient e assai ricca di spessore. Un’altra bella scoperta è stato il Frode Haltli Avant Folk, ottetto norvegese dedito ad un raffinato e riuscito connubio tra melodie popolari, improvvisazione e rock, per nulla scontato e magnificamente spazializzato nell’architettura dell’Abbazia di Corno di Rosazzo.

AD OCCUPARE il programma con ben quattro gruppi la nuova scena britannica della quale si è potuto ascoltare dunque una selezione rappresentativa. Va detto che non siamo di fronte ad una realtà che si caratterizza per omogeneità stilistica ma per la giovane età dei suoi membri, il senso comunitario che emana, il legame con le musiche africane e caraibiche della diaspora, la corposa presenza femminile. A parte l’attenzione per il groove, sempre ben riconoscibile e centrale, le sue declinazioni sono molteplici. Il sassofonista Binker Golding propone un maistream che, tutto sommato, non si distanzia da quello newyorchese mentre assai più personale è Nubya Garcia. La tenorista ha presentato un set compatto con quattro brani dal profilo melodico nitido ed efficace su ritmiche afro e dub. Leader incontrastato di quella scena è il sassofonista Shabaka Hutchings, che al festival ha portato la sua creatura più estrema: The Comet Is Coming. Il trio, completato da Dan Leavers alle tastiere e Max Hallet alla batteria è piombato su Cormons come un meteorite. La musica di questo trio non fa prigionieri. Prendere o lasciare. Iperbassi dub che squassano gli intestini, house martellante, il sassofono a disegnare ipnotiche spirali di suoni sovraccarichi di effetto echo. La musica procede per flussi secondo una estetica da club dove si balla, si dondola, si entra e si esce ed è abolita la classica partizione tema-assolo-tema. Max Hallett saluta con un “Fuck Brexit!” subito raccolto e rilanciato dalla platea. Il concerto si trasforma in una festa con parte del pubblico a ballare nei corridoi e sotto il palco. Più di qualche attempato jazz-fan ha abbandonato la sala scuotendo la testa. Che il jazz torni a dividere è un buon segno.