La Svizzera viola la convenzione sui diritti dei bambini secondo Amnesty International. «Due membri di Amnesty sono stati a Como e hanno trovato dei minorenni che hanno parenti in Svizzera, uno di loro persino il papà, ma non sono stati autorizzati a passare il confine. In questi casi c’è davvero un problema perché l’interesse superiore del bambino è che sia il più presto possibile con il padre o con un parente e non che sia mandato indietro in Italia dove non ha nessuno», spiega Denise Graf, responsabile Svizzera, ai microfoni di Radio3i. Manda anche un messaggio a chi critica la posizione di Amnesty: «Abbiamo la certezza di questi casi perché abbiamo incontrato questi minorenni, li abbiamo intervistati e ci hanno dato il contatto dei loro parenti in Svizzera. È chiaro che la situazione è questa».

Mentre si sta individuando l’area dove sistemare i container, alla stazione San Giovanni di Como continua l’andirivieni di associazioni e solidali. Tra i vari attivisti che animano lo scalo c’è No Border Radio, progetto nato nei campi migranti della Grecia. Tramite lo strumento radio si abbattono le distanze permettendo a chi è bloccato nel suo viaggio di raccontare la propria storia e di raggiungere i cari all’estero.

Abbiamo incontrato Bilal, unico palestinese tra le centinaia di persone che assiepano il parco davanti alla stazione. Ci dice, in italiano faticoso, «sono arrivato in Italia in mare, siamo stati abbandonati su una barca e siamo stati lì due giorni fin quando non siamo stati intercettati da una nave della polizia. Ci hanno portato fino a Lampedusa, al centro. Ho iniziato da lì a risalire. Sono arrivato a Roma, poi da Roma in treno a Milano. Da Milano sono arrivato a Como e ho preso un pullman per andare in Svizzera. Al confine i poliziotti Svizzeri mi hanno chiesto perché volevo entrare. Gli ho risposto che da lì dovevo passare per continuare il mio viaggio. Mi hanno rispedito a Como, con altri ragazzi e ragazze dell’Africa. Non voglio fermarmi in Italia, e nemmno in Svizzera. Voglio andare in Svezia. Ho iniziato il mio viaggio 40 giorni fa. Da solo».

Yadassham invece è Etiope ed è colui che tiene assieme la sua comunità. Si presenta così come coordinatore degli etiopi bloccati in città e ci dice che il suo viaggio è iniziato attraversando il deserto del Sahara per poi imbarcarsi per l’Europa: «Noi ci aspettiamo che il governo italiano ci aiuti, sì, ma a continuare il viaggio. Noi abbiamo sempre pensato che l’Europa fosse un posto democratico». Yadassham è elemento di raccordo per gli altri etiopi ma soprattutto opera affinché la sua comunità non entri in rotta di collisione con quella Eritra.
Cerchiamo Samuel, il coordinatore della comunità Eritrea. Samuel è stato per anni in carcere nel suo paese, è diacono coopto, e sul suo corpo porta i segni della guerra e della repressione: «Qui siamo arrivati da diversi punti dell’Africa occidentale, Eritra, Etiopia, Egitto. In Italia ci hanno detto che avendo dei parenti in altri paesi europei avevamo maggiori possibilità di continuare il viaggio e non essere fermati. Qui c’è gente che è passata da Milano, Torino, Vicenza e Verona e a Chiasso è stata respinta dalla polizia che ci ha rispedito alla stazione di Como».

Samuel ricorda come «in stazione la situazione non è semplice, mancano i bagni e l’assistenza minima per le tante famiglie e per i tanti minori che aspettano di poter continuare il viaggio. Noi ringraziamo tutte le persone che giornalmente ci aiutano, anche la polizia ferroviaria di Como, solidale con noi». Un’altro ragazzo eritreo ci racconta la sua storia ma non vuole essere registrato, ci dice come sia in fuga dal suo paese da 14 anni. Aveva i documenti per andare negli Usa ma gli sono stati rubati. Sorride mentre racconta la sua vita.

Parliamo con Sabir, etiope arrivato in Italia da soli dieci giorni, «ho attraversato prima il Sudan e poi la Libia, poi il mare, in solitaria. Arrivato in Italia le autorità mi hanno chiesto dove volevo andare e io ho detto in Svizzera. Ma non ne sono ancora del tutto sicuro. Sono scappato dal mio paese per ragioni politiche. Da noi non c’è libertà, diritto di parola e d’espressione, diciamo che in generale mancano tutti i diritti» e «se tornassi indietro protrebbero ammazzarmi o se mi andasse bene mi metterebbero in carcere. Ho 27 anni e qui vedo democrazia e libertà – conclude – sarebbe bello si utilizzassero per aiutare persone come noi, che non hanno casa, sono in difficoltà e che cercano la salvezza qui in Europa».