La Nazione Arcobaleno è in lutto. Hamba Kahle Madiba, con queste parole di arrivederci in lingua xhosa stampate su un volantino illustrato – In lutto per un leader, celebrandone l’eredità – distribuito ieri mattina alla stazione ferroviaria di Cape Town, il Parlamento sudafricano ha voluto rendere omaggio al fondatore del Sud Africa libero.

Con Mandela il Sudafrica ha perso la sua identità e un’altra storia è ora cominciata.

Il tempo si è fermato alle 20:50 di giovedì 5 dicembre e una lunga notte è calata su strade, case e rifugi di cartone dei marciapiedi delle città e nelle baracche delle township. Bandiere a mezz’asta e una quiete attonita hanno accolto l’alba di ieri in un risveglio quanto mai stordito. A Cape Town è stato un giorno lavorativo come tanti assordato però da un’insolita quiete. Nessuno «shock» per molti sudafricani alla notizia della morte del vecchio leader – annunciata da uno Zuma commosso, in abito scuro e viso tirato – come se fossero anestesizzati dai lunghi mesi di malattia di Madiba che, da giugno a settembre scorso, li avevano tenuti col fiato sospeso in un vortice empatico e quasi ipnotico, travalicando in diretta mondiale i confini dell’etere.

Nel tardo pomeriggio di ieri in migliaia si sono raccolti nella storica piazza della Grand Parade di Cape Town dove, dal balcone della City Hall, nel 1990 – dopo 27 anni di lotta dal chiuso della sua cella – Nelson Mandela tenne il suo primo discorso da uomo libero alla gente del Sudafrica. «I vostri sacrifici instancabili ed eroici hanno reso possibile per me essere qui oggi. Nelle vostre mani metto gli anni che mi restano da vivere».

Sommessi, senza shock

Ieri quella gente insieme a molti turisti e immigrati africani e a molti europei che hanno scelto di vivere qui, in un tripudio sommesso di lingue e linguaggi, hanno salutato il compagno di lotte che con il suo credo pacifico e combattente ha saputo parlare un lingua universale rompendo ogni confine geografico e etnico. Ad aprire la commemorazione, l’attacco cantato dell’inno nazionale «Nkosi Sikelel’ iAfrika» e il saluto in lingua xhosa di un membro di un gruppo etnico locale che urlando al cielo parole ai più incomprensibili ha trasmesso però l’emozione comune strozzata in gola. Sebbene in un tono dimesso lontano dall’euforia combattiva di quel lontano 1990, la tristezza ha saputo mascherarsi per cedere a una celebrazione gioiosa e serena. La piazza, alle presenza dei rappresentanti delle autorità locali religiose e del sindaco di Cape Town Patricia De Lille, ha celebrato sommessamente, oltre a Madiba il sogno di libertà costato sangue e oppressione. Una commemorazione terminata in una danza spontanea tra le note dell’inno nazionale scivolate in quelle della canzone Asimbonanga di Johnny Clegg.

Mentre, poco lontano dalla Grand Parade, la vita quotidiana continuava, pacatamente, tra gli ambulanti impegnati a chiudere baracca e raccogliere la merce, turisti indifferenti ai tavolini dei bar sorseggiando mojito e cocktail estivi, poveri dannati con le mani nei rifiuti alla ricerca di cibo e qualche emarginato buttato all’angolo di una via o all’entrata di qualche edificio. Scene ordinarie.

La cerimonia commemorativa nazionale di Nelson Mandela si terrà il 10 dicembre allo stadio di Johannesburg e i funerali il 16 dicembre a Qunu, il villaggio natale di Madiba nella provincia dell’Eastern Cape. Mentre l’otto dicembre è stato invece dichiarato dal Presidente Jacob Zuma giornata di preghiera e di riflessione.

Attorno alla casa del «Padre» a Johannesburg giovedì sera, pochi istanti dopo la conclusione del discorso presidenziale alla nazione a reti unificate, era stato ancora il coro dell’inno nazionale, ad unire le voci di quanti si erano raccolti per rendere l’ultimo saluto al primo Presidente nero eletto in libere elezioni. Increduli, avvolti nelle bandiere e mezzo assonnati, anche bambini sulle spalle di donne e uomini figli di un periodo nero non solo per la Nazione Arcobaleno ma per il mondo intero.

Tra pianti, silenzi, sorrisi e canti la gente di Soweto e Johannesburg aveva salutato l’uomo, fuori da ogni gioco politico, pronto a morire per liberare il suo Paese dalla schiavitù in cui lo aveva costretto la demonizzazione di ogni cultura della diversità. «Abbiamo perso il nostro primo Presidente nero», sussurra Connie J. con voce dimessa dalla cucina dell’azienda per cui lavora. «Lui era il mio Presidente, non Zuma». Di circa 45 anni, impiega più o meno due ore ogni giorno per raggiungere il suo posto di lavoro da una delle tante township delle periferie di Cape Town.

Contro la corruzione

«Ho appreso la notizia questa mattina appena sveglia, e ho pianto. Madiba non c’è più. Lui ha rotto le catene dell’apartheid nella nostra società, ma ora, con questa classe politica corrotta, che succederà?», dice Zanele K. una donna di mezza età. Sentimenti e preoccupazioni contrastanti tra la gente incontrata per strada, tra chi si dice di aver appreso la notizia della dipartita dell’amato Tata con spirito rassegnato e chi con sguardo fisso resta ancora incredulo.

«Ora può riposare in pace. Era vecchio e malato. Le cose non possono cambiare in peggio grazie all’eredità che ci ha lasciato», dicono alcuni fermi a chiacchierare per strada. Ma altri, come una giovane guardia di sicurezza di 35 anni, nero, tuona duro contro l’African National Congress (Anc), il partito di Mandela dal 1994 al potere: «Mandela ha messo fine all’apartheid. Ma con Anc al potere dopo di lui siamo ripiombati nell’apartheid, un‘altra apartheid, quella di pochi neri corrotti che non hanno saputo raccogliere l’eredità di Madiba e hanno invece lasciato ai margini i tanti poveri che da vent’anni ancora aspettano una casa e un lavoro. Non è l’apartheid dei bianchi ma è quella dei neri contro i neri. Di chi ha contro chi non ha». E c’è chi esprime ora preoccupazione per un Sudafrica che sì, non è più oppresso dall’apartheid ma è rimasto apartheid colour. Non sono pochi a pensarlo, tacitamente, che il Sudafrica del post Mandela, dopo la fine del mandato presidenziale di Mandela, sia un Paese in cui razze e colori non si sono mai amalgamati. Segno che dopo vent’anni dalla fine di quel regime di segregazione, l’eredità di Madiba non è ancora stata né raccolta realmente dalla politica né pienamente percepita dalla gente.