Sono due i film americani del Natale di quest’anno che arrivano preceduti da «un’ouverture». Quella del nuovo film di Quentin Tarantino, The Hateful Eight, è un cartello fisso, con la silhouette di una diligenza in corsa, nera su fondo rosso – la musica è un luminoso tema originale di Ennio Morricone. Anche Spike Lee, per Chi-Raq, usa un (di)segno iconico degli States -la sua mappa, in vivace tricolore- ma tutta composta di pistole, mitra e mitragliette, una vicino all’altra. «Please pray 4 my city», per piacere pregate per la mia città, canta Nick Cannon (uno dei protagonisti del film), mentre sullo schermo scorrono dei numeri che paragonano i morti americani in Iraq (4.424 tra il 2003 e il 2011) alle statistiche sugli omicidi a Chicago (7.356, tra il 2001 e il 2015).

La guerra in Medio Oriente e quella nei ghetti delle grandi metropoli americane, si contraggono infatti nel titolo del nuovo film di Lee, preso dal soprannome che la città di Barack Obama si è tristemente conquistata negli ultimi anni, grazie al dilagare del crimine e alle guerre tra gang.

Arrivato nelle sale americane in abbagliante coincidenza con le stragi in Colorado e a San Bernardino, le recenti proteste a Chicago dopo il rilascio di un ennesimo video i cui si vede un poliziotto crivellare di proiettili un ragazzo nero, e tre settimane dopo che la stessa città è stata scossa dall’uccisione di un bambino di nove anni (sarebbe il quarantesimo nel 2015, secondo la CBS), giustiziato in un vicolo dai membri di una gang rivale a quella di suo padre, Chi-Raq è – sia politicamente che esteticamente- il film più ricco, appassionato, originale e provocatorio che Spike Lee ha realizzato da parecchi anni a questa parte. E non solo per la sua straordinaria attualità.

Liberamente adattato dalla Lisistrata di Aristofane (Lee è anche sceneggiatore, insieme a Kevin Willmott), Chi-Raq rientra in quel filone (di cui fanno parte alcuni dei suoi lavori più interessanti e meno visti all’estero, come School Daze, Crooklyn, Get on the Bus, Bamboozled..) dell’opera dell’autore newyorkese, che non solo è ambientato «dentro» alla comunità afroamericana ma che a quella comunità sembra rivolgersi. Fin dai tempi di Nola Darling (di cui Chi-Raq riprende il gioco sul rapporto tra sessi), Lee è stato infatti l’autore di cinema black che ha messo più in scena ma anche più in gioco le complessità e le contraddizioni della sua gente, con la cui realtà (sociale e culturale) intesse un dialogo continuo, spesso critico, da sempre. Post racial è un concetto che nell’universo poetico di Lee non esiste – anche per scelta. E, in quel senso, con gli anni, i suoi film sono diventati sempre di più un’affascinante nuova frontiera della blaxploitation.

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Tragedia, commedia, musical, sermone religioso, pampleth politico, un pugno nello stomaco e un’esortazione sferzante (in cui torna, non a caso, il grande grido di Fai la cosa giusta, WAKE UP, svegliatevi), Chi-Raq ha un coro greco – nella persona di Samuel Jackson – dialoghi fittissimi spesso scritti a rima e –di nuovo la parola- si apre su un concerto rap, in cui una folla adorante di ragazze va in delirio di fronte a Nick Cannon, nel ruolo del rapper Chi-Raq, impegnato in una di quelle classiche performance canore in cui tra un pene e la canna di una pistola si fa poca differenza. Il numero musicale viene preso interrotto da una sparatoria – Chi-Raq è anche il capo della gang degli Spartani (blu), acerrimi nemici della gang di Troia (arancione), comandata da un redivivo Wesley Snipes, che nel film si chiama Ciclope perché una pallottola gli è costata un occhio.

Dopo che un incendio interrompe bruscamente un momento romantico con Chi-Raq, e una bimba del quartiere viene uccisa da una pallottola vagante, Lisistrata (Teyonah Parris) decide di arginare la violenza con uno sciopero del sesso. «No peace no pussy», niente pace niente figa, diventa così il grido di guerra delle fidanzate dei giovani criminali, adottato ben presto dalle prostitute e dalle spogliarelliste locali, dalla signore middle class del resto della città e – ci informa inviperito il sindaco bianco che ammicca a Rahm Emanuel – pare persino dalla First Lady Michelle Obama. In effetti, Lisistrata e le altre non si fermano al microcosmo delle gang – nei film di Spike Lee, le donne sono invariabilmente più forti, più coraggiose e più lungimiranti dei maschi.

La loro mossa successiva è quella di prendere possesso – a tasso zero di sangue e con massima umiliazione per i suoi occupanti – della sede della Guardia nazionale, i cui le ragazze si installano con una coreografia da musical corredata di cinture di castità. Come loro, Lee non ha solo in mente la violenza degli afroamericani contro altri afroamericani, che sta dilaniando le inner cities Usa: nel film si affollano riferimenti alle scelte politiche che hanno facilitato quella violenza, alle pistole che arrivano dall’Indiana in barba alle leggi più restrittive dell’Illinois, ai capitali spesi per rilanciare l’economia irachena mentre le periferie americane languiscono, e persino al piano regolatore di Chicago e alla distruzione del mitico project, Cabrini Green. Uno dei meno timidi filmmaker americani sulla piazza, Lee qui non ci, e si, risparmia nulla, inclusi alcuni tratti del pesante didatticismo che spesso affligge i suoi film.

Come Lisistrata, anche lui ha un obbiettivo; e come lei usa le armi migliori che ha: la grande, quasi rabbiosa, energia fisica del suo cinema, l’amore per le texture dolorose e infinite della città, le dense polifonie sonore di Terence Blanchard, il colore e l’occhio elettrico del suo grande direttore della fotografia Matthew Libatique. E, forse più di tutto, la convinzione che un film possa essere usato anche come un corpo contundente.