Il fenomeno dei graffiti urbani è qualcosa di molto complesso che non si può spiegare se non a partire dalla loro insita natura antagonista. Dalla violenta lotta senza quartiere tra poliziotti e writers newyorkesi negli anni settanta di tempo ne è passato. E benché sia vero che non tutta l’arte di strada è fuori legge, è altrettanto vero che ciò che di interessante ancora ne emerge è la reazione che provoca l’apparizione in città di un graffito «abusivo». L’emergere di nuove figure di contrasto e di dispositivi di legge contro gli «imbrattatori» dei muri sembra avere mitigato l’entità dello scontro delle origini. Restano tuttavia tautologici i meccanismi che il graffitismo continua a innescare.
Di questo fenomeno sociale complesso ci parlavano già nel 2016 Alessandro Dal Lago e Serena Giordano in Graffiti. Arte e ordine pubblico (edito da il Mulino). I due autori ribadivano allora la vitale forza innovatrice e lo statuto gratuito e disinteressato di quest’arte, a fronte, da un lato, di sempre più incattiviti comitati per il decoro urbano con licenza di ripulire i muri; e, dall’altro, di galleristi o addetti alla cultura pronti a far rientrare l’opera di strada trasgressiva nella «legittima» cornice dell’arte ufficiale. Con riferimento al concetto weberiano di «legittimità», nel libro veniva smascherata la deriva autoritaria di questi soggetti che fondano la loro pretesa giustizia su arbitrari richiami a «tradizione», «carisma», «legge».
Oggi Dal Lago e Giordano ritornano sul tema con un nuovo saggio: Sporcare i muri Graffiti, decoro, proprietà privata (Derive Approdi, pp. 125, euro 16,00). Un lavoro plurale in cui i due autori si mettono in ascolto dei protagonisti-antagonisti degli spazi urbani, cedendo la parola a writers e street artists, ma anche a osservatori privilegiati e intellettuali.
Il nucleo di interviste ai graffitisti, che non ha pretese esaustive ma paradigmatiche di questo variegato sottobosco urbano, mostra pratiche e contenuti molto diversi tra loro, con approcci eterogenei al circostante. I writers intervistati, soprattutto quelli della vecchia guardia che erano dediti al writing negli anni novanta, praticano tag, throw up e bombing con intenti dichiaratamente vandalici. Senza compromissione col potere, e nemmeno con il mercato dell’arte, essi non si considerano artisti. Il loro gesto è politico perché illegale. Incomprensibili ai più, le loro scritte sono messaggi ermetici, interni a una comunità, che evolvono verso forme cifrate e astratte e si pongono come un’incessante presa di possesso della realtà.
Quanto agli street artists intervistati, si va da illustratori murali a portatori di messaggi di vario tipo, ma soprattutto di natura politica. I loro modus operandi, molto diversi tra loro, vanno da gesti provocatori, a lavori come forme di dialogo con le comunità locali o persino di «educazione al bello». In generale, comunque, l’elevato valore comunicativo della street art, con l’utilizzo perlopiù di figure stilizzate e caricaturali, la portano a un rapporto calcolato e proprio per questo forse più complesso con la realtà.
Dal Lago e Giordano ribadiscono l’attenzione al ruolo sociale dei muri e alla possibilità che essi offrono di esprimere pubblicamente identità e punti di vista differenti sul mondo. Illegittimi, infestanti, indecorosi, i graffiti considerati tali rivelano in realtà la refrattaria pulsione umana a ogni forma di supina obbedienza all’ordine costituito e agli interessi che lo muovono. Interessi sedicenti generali e che perlopiù sono di tipo capitalistico, come ben si sottolinea nell’intervento di Marcello Faletra. La domanda, dunque, sugli spazi urbani è semplice ma essenziale, ed è la stessa che campeggia a ogni angolo della gentrificazione berlinese: Wem gehört die Stadt? A chi appartiene la città? Ai benpensanti, agli speculatori immobiliari, ai tutori dell’ordine pubblico (ammesso che queste tre figure siano separabili)? O per chi, singolarmente o collettivamente, vive la città in tutta la sua quotidiana complessità? E così, se l’intervento di Monia Cappuccini ci parla del valore premonitore dei graffiti che cominciarono a invadere i muri di Atene prima del collasso greco, Raffaella Ganci, attivista e sodale del mondo dei graffitisti, ci racconta la paradossale cronaca del comune di Firenze, che con i suoi regolamenti pretende di separare i graffiti buoni dai cattivi in funzione di un reazionario decoro di facciata.
Come sottolinea Sporcare i muri, il misterioso dispositivo del «decoro, categoria opaca e performativa (al pari di altre analoghe, come la “sicurezza urbana”) si risolve facilmente notando che esso rimanda a un conflitto incessante e senza esito; quello tra i detentori di proprietà, reali o immaginarie, e gli espropriati, i cittadini che non hanno accesso alle risorse, materiali, simboliche ed estetiche». Un conflitto, si ribadisce, che sarà «senza fine perché a ogni rivendicazione di proprietà e di decoro corrisponderà un comportamento marginale, una resistenza – un homeless che si insedia sotto un portico, un povero che chiede l’elemosina, un disturbatore della quiete pubblica. E ovviamente un writer o un artista di strada che marca un pezzo di muro o illustra la sua visione del mondo». Insomma, la conclusione è che dietro il sepolcro imbiancato del decoro si voglia solo nascondere le ossa di «una società cieca e sorda davanti alla marginalità e ai diritti degli altri».