Nella storia del comunismo italiano Ingrao si distingue inconfondibilmente per l’enfasi che pone su due aspetti della via italiana al socialismo.

In primo luogo la consapevolezza che le sorti della democrazia sono sempre affidate non alle procedure ma ai rapporti di forza. E’ questo il nucleo autenticamente machiavellico del pensiero di Togliatti che dall’andamento catastrofico della prima metà del 900 ha ricavato la convinzione che nessuna conquista del movimento operaio possa essere considerata acquisita una volta per tutte. L’attenzione che Ingrao porta ai movimenti sociali non è «movimentismo» (come gli viene spesso rimproverato), ma consapevolezza che solo nel conflitto sta la possibilità di accumulare nuove risorse politiche indispensabili per una strategia di lunga lena.

Nello stesso tempo, ancora una volta come nel Togliatti membro della Costituente, c’è una attenzione costante ai profili istituzionali della forma della rappresentanza e della forma di governo, ossia una grande consapevolezza del ruolo che la forma giuridica può svolgere nell’esito del conflitto sociale.

Credo tuttavia che se vogliamo onorare Ingrao, ossia andare ad una considerazione non solo celebrativa e di maniera del suo profilo intellettuale e politico, sia giusto metterlo a confronto con la grande difficile sfida che si profila alla metà degli anni Settanta, quando improvvisamente si arresta il circolo virtuoso tra sviluppo capitalistico, crescita del movimento operaio e allargamento della democrazia, e la crisi di identità del partito comunista che ne deriva comincia a riflettersi specularmente nella crisi di stabilità della repubblica. Con il «compromesso storico» Berlinguer ha evocato la possibilità di una avventura reazionaria. Ma all’orizzonte si affaccia qualcosa di molto più radicale del tintinnare delle sciabole. Per usare il linguaggio di Montale, la storia cambia ora di binario.

Non è facile riassumere in breve quella cesura profonda nella storia del capitalismo internazionale, che è anche in qualche misura fine del lungo dopoguerra. Per rimanere ai termini di una analisi essenzialmente economica, eppure densissima di implicazioni politiche, si può dire che l’obbiettivo storico della piena occupazione viene retrocesso rispetto a quello della lotta all’inflazione. Le grandezze monetarie cominciano a comandare gli andamenti della economia reale. Cosa vuol dire questo per il movimento operaio? Che le lotte rivendicative che fino a ieri hanno fruttuosamente spinto per un allargamento del mercato interno e per l’attuazione di riforme sociali che tardivamente hanno allineato l’Italia allo standard europeo di stato sociale, sono improvvisamente dichiarate incongruenti e nocive. (…)

Fa la sua prima apparizione il vincolo esterno come nuovo, cruciale protagonista politico, che deriva la sua forza dal presentarsi come risultante di una presunta assoluta e indiscutibile oggettività economica. (…)
Il linguaggio del Pci è chiamato a fare i conti con uno scenario radicalmente mutato. Secondo Ingrao la fase in corso, è contrassegnata da «l’inceppo complessivo nei meccanismi con cui lo stato assistenziale tende a controllare e a governare la vita delle masse». Si tratta di una crisi di egemonia, egli dice espressamente, che in quanto tale aprirebbe la possibilità di equilibri più avanzati.

Da qui la proposta di una terza via, oltre il fallimento di comunismo e socialdemocrazia. L’indicazione non supererà la soglia di una vaga suggestione, senza riuscire a tradursi in concretezza programmatica. Eppure, che le politiche keynesiane non siano più applicabili, che lo stato sociale diventi sempre più oneroso per i costi crescenti del debito, e così via, non è cosa che riguardi solo le socialdemocrazie. Frana anche il terreno su cui il Pci, e il sindacato, hanno costruito il rapporto tra rivendicazioni e riforme (…).

Insomma il partito comunista, ad onta dei suoi collegamenti internazionali che ne hanno segnato la indubbia diversità, ha avuto successo nella misura in cui ha saputo beneficiare delle stesse condizioni che hanno favorito il movimento operaio europeo. Ed è esso stesso investito dalla crisi nel momento in cui quelle condizioni vengono meno. E’ quanto l’ipotesi della terza via sembra non volere accettare.
Mi spiego anche con la mancanza di un confronto ravvicinato con i problemi stringenti insorti con lo shock degli anni Settanta il fatto che la sinistra comunista non riesca a contrastare la cultura del postcomunismo che comincia ora a prendere piede all’interno del partito e del sindacato.

Con la vocazione nazionale della classe operaia il postcomunismo giustifica l’accoglimento della politica di moderazione salariale richiesta, in nome del vincolo esterno, dalla Confindustria di Guido Carli. Naturalmente le politiche dei redditi sono parte integrante della esperienza socialdemocratica, ma sempre nel più vasto quadro di accordi complessivi sull’andamento delle grandezze macroeconomiche. Il tratto singolare di questa versione postcomunista della politica dei redditi sta nell’assenza di garanzie o contropartite di alcun tipo. C’è solo la presunzione azzardata, priva di qualsiasi supporto teorico e politico, che sia sufficiente ridare spazio al profitto, a scapito del salario, per avere più investimenti e quindi più occupazione(…)
Questa idea politicamente suicida, oltre che priva di ogni fondamento di teoria economica, che il peggioramento delle condizioni contrattuali e retributive del lavoro sia un passaggio necessario per la ripresa economica arriva come è noto fino ad oggi.
Successivamente, negli anni Novanta, la cultura del postcomunismo si eserciterà essenzialmente nel veicolare una visione totalmente acritica del processo di unificazione europea.

La filosofia del Trattato di Maastricht, costruita attorno alla centralità del mercato, è frontalmente contrapposta alla filosofia della nostra Costituzione, costruita attorno alla centralità del lavoro. Ma tutti preferiscono fare finta di nulla.
Ancora Guido Carli, che firma il Trattato in qualità di Ministro del Tesoro, scrive nelle sue memorie: «Ancora una volta si è dovuto aggirare il Parlamento sovrano della Repubblica, costruendo altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria… ancora una volta dobbiamo ammettere che un cambiamento strutturale avviene attraverso l’imposizione di un vincolo esterno» (…).

Il confronto più ravvicinato che Ingrao impegna con il postcomunismo si sviluppa tuttavia nella lettura della crisi del sistema politico repubblicano che esplode vistosamente negli anni Ottanta. A questo proposito il suo scambio di lettere con Norberto Bobbio pubblicato da Maria Luisa Boccia, Alberto Olivetti e Luigi Ferrajoli, costituisce un documento di grande interesse storico.

Riletti oggi, gli interventi di Bobbio colpiscono per una certa loro arroganza intellettuale. L’intenzione è quella di azzerare, destituendole di ogni significato, le parole chiave di un intero lessico politico che è, sì , quello dei comunisti italiani, ma in misura non secondaria anche quello della Costituzione, non a caso nata all’unisono con la cultura della stato sociale, dominante in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

Affermare che l’unico linguaggio dotato di significato concreto è quello dello stato di diritto, per cui la libertà si definisce solo in negativo, significa mettere in mora l’articolo 3 della Carta. Bobbio se la prende con il termine «masse». Ma il tratto inconfondibile della democrazia europea rinata con il 1945, dopo il fallimento clamoroso degli anni Venti e Trenta, è stato quello di realizzare la piena integrazione del movimento operaio, che è per l’appunto un movimento di massa. Il caso italiano presenta particolarità solo per gli effetti di esclusione imposti dalla guerra fredda, ma non costituisce una eccezione rispetto a questo più complessivo percorso storico.

Si denuncia poi la politica di unità come impossibile alternativa al «modello Westminster» della alternanza. Ma nella storia del comunismo italiano il tema nasce da una riflessione sui pericoli politici insiti in una stratificazione economica e sociale segnata da fratture e contraddizioni profonde. Procedendo su questa strada Bobbio vuole mettere nell’angolo, in punizione, anche Antonio Gramsci. Perché ricorrere al concetto fumoso di egemonia quando il dispositivo elettorale basta a dirci chi ha il consenso e chi no? A questo punto le risposte di Ingrao si fanno di necessità didascaliche : il consenso elettorale della Dc non è facilmente spiegabile senza il ruolo della Chiesa, senza il controllo di tutte le istituzioni che fungono da volano dello sviluppo, senza la gestione ad libitum del bilancio pubblico.(…)

Perché allora misurare i problemi politici di una società di capitalismo maturo con il costituzionalismo di primo Ottocento, con «la libertà dei moderni» di Benjamin Constant? Siamo dinanzi ad una scelta tutta politica. La governabilità, si pensa, può e deve essere garantita con la riduzione della complessità, con un esplicito ritorno allo statuto. Ma alleggerire così vistosamente la responsabilità e vorrei dire la complessa carica semantica del lessico democratico significa incoraggiare la separazione della politica dalla società civile, ossia spingere di fatto in direzione della casta. Non a caso al centro della proposta di Bobbio sta la riforma della legge elettorale. Lo scopo è quello di fare arretrare il potere dei partiti con meccanismi di ingegneria istituzionale, senza riflettere sulle ragioni di una crisi che si origina nei mutati rapporti con la società e con lo stato.

La tesi di Bobbio sarà largamente vincente. In un clima di attacco sempre più generalizzato al partito di massa, le condizioni dell’alternanza sono, con il cambiamento del nome, il tema che più di ogni altro caratterizza lo scioglimento del Pci.
Il tema della riforma elettorale, di cui stiamo vivendo ora una preoccupante riedizione, è insomma nel Dna di questo partito, che fin dalla sua costituzione punta decisamente ad una modificazione di tratti fondativi della repubblica parlamentare.
Credo sia giusto ricordare che Ingrao è l’unico membro del gruppo dirigente comunista che fin dagli anni Settanta contrasta apertamente l’offensiva di Bobbio su Gramsci e sul problema istituzionale. Altri l’accolgono come liberatoria, portatrice di laicità e modernità, stimolo utile per emanciparsi dalle vecchie identità del passato.

La risposta di Ingrao sta nella difesa a oltranza della centralità del parlamento. Ferrajoli ha già messo in evidenza quanto forti siano nelle sue analisi di allora le premonizioni della crisi in cui versa oggi la nostra democrazia. La sua debolezza, invece, mi sembra consistere nel fatto che la riproposizione di quel tema non si fa carico di un fatto nuovo. Ossia la crisi della forma partito su cui invece insiste con toni sempre più apertamente liquidatori la cultura del liberalismo ristretto ora ricordata.
E’ questa la vera chiave per leggere il dibattito istituzionale degli anni Ottanta. In effetti la centralità del parlamento voluta dal costituente implica come corollario necessario l’esistenza di partiti che pur nascendo nelle pieghe della società civile siano capaci di trascenderla, superando il condizionamento degli interessi sezionali. Se nel modello liberale, che allora viene riproposto in toto, il partito è fonte di disgregazione, nel modello democratico è risorsa essenziale per la formazione dell’indirizzo di governo. Solo con partiti capaci di svolgere la funzione di sintesi il parlamento può divenire il luogo in cui prende corpo un processo legislativo spedito ed efficace.

Ingrao propone l’abolizione del Senato come risposta alla crescente insidia corporativa, ma non si misura a sufficienza con questo più grave tema sottostante (…).

Certo il 1989 rappresentò un passaggio arduo, anche sul piano internazionale. Emmanuel Levinas disse nel 1992: «Il dramma è che la fine del comunismo è la tentazione di un tempo che non è più orientato. Noi siamo abituati da sempre a considerare che il tempo va da qualche parte… ed ecco che oggi si ha l’impressione che il tempo non vada più da nessuna parte». Oggi è più facile vedere come la prospettiva di un futuro possibile, entro cui formulare la domanda «che ora è ?», può essere articolata politicamente, laicamente, senza il supporto del mito, ma sulla base di un programma dotato di una forte coerenza intellettuale e politica.

Quanto pubblicato sono alcuni passaggi, a nostro avviso i più significativi, del testo scritto da Leonardo Paggi in occasione della celebrazione che si svolge oggi alla Camera dei Deputati.