A giudicare dal successo del musical di Broadway Hamilton, ispirato a uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, la politica americana è il perfetto scenario per un’opera musicale. In effetti l’alleanza tra musica e politica è nata nelle ex colonie inglesi proprio all’alba della Repubblica e la storia delle elezioni a stelle e strisce può essere raccontata attraverso un repertorio di brani e una carrellata di musicisti.

Si inizia proprio con George Washington che venne accompagnato nella sua elezione a primo presidente USA dalla canzone God Save Great Washington, scritta quando il virginiano era il Comandante delle truppe rivoluzionarie, ma tornata buona per diventare un inno in occasione delle prime presidenziali del 1788. I brani musicali erano non solo un pionieristico tentativo di spot elettorali, ma un’occasione per introdurre i comizi, attirare l’attenzione del pubblico nelle piazze e creare entusiasmo.

La prima vera canzone di propaganda scritta appositamente per le elezioni fu The Hunters of Kentucky nel 1824. Era una ballata che celebrava Andrew Jackson e i suoi trionfi militari contro gli inglesi. Ma la canzone elettorale più celebre del XIX secolo fu Tippecanoe and Tyler Too scritta per le elezioni del 1840 che portarono alla Casa Bianca William Henry Harrison. Il motivo, ispirato a un canone degli spettacoli Minstrel, era una giocosa satira dei rivali politici di Harrison ed è stato ritenuto il brano che ha definitivamente consacrato il potere delle canzoni come strumento di propaganda politica. Da allora quasi sempre si può associare un candidato presidenziale a una canzone.

Con l’avvento delle incisioni, per sostenere i candidati si cercarono composizioni che avevano avuto successo discografico. È il caso di Happy days are here again successo del 1929 che accompagnò nel ’32 la campagna di Franklin Delano Roosevelt. Agli albori dell’era pop le campagne per la Casa Bianca divennero non solo scandite dalle note, ma sostenute dallo star-power dei divi musicali.

Nel 1960 la stella più brillante del firmamento era Frank Sinatra che si schierò con John Fitzgerald “Jack” Kennedy. Pubblicò anche un singolo elettorale, High Hopes, un suo brano in cui il testo era stato cambiato per l’occasione: «Tutti votano Jack. Perché ha quello che agli altri manca». Narra la leggenda (e forse non è neppure così leggenda) che l’amicizia tra The Voice e il futuro presidente fosse nata grazie alle comuni amicizie mafiose di Sinatra e del padre di JFK, Joseph, e che Frank e Jack fossero uniti dalla loro inesausta passione per le belle donne. Intanto il rock era diventato un fenomeno giovanile, ma i politici rimasero piuttosto scettici ad avvicinarsi a un movimento considerato ribelle e imprevedibile. Allo stesso modo gli artisti erano più inclini a sposare cause sociali che non legarsi ai partiti visti come espressione di una classe dirigente comunque ostile.

Nel corso della storica Convention democratica del 1968 a Chicago il partito democratico si spaccava sulla questione del Vietnam e l’assemblea venne assediata da migliaia di giovani. In un clima tesissimo pochi musicisti si fecero vedere. L’unico che cantò per i ragazzi che protestavano fu il cantautore Phil Ochs. Ma le cose stavano per cambiare. Nel 1970 Elvis Presley fu ospitato alla Casa Bianca da Nixon. Un incontro bizzarro, in cui Elvis si proponeva a uno stralunato Nixon, portando come presente una Colt 45 cromata, come agente federale onorario per poter combattere l’abuso di droga «tra gli hippie». Ma la stretta di mano tra i due sdoganava definitivamente il rock&roll.

Nel 1972 il candidato democratico George McGovern venne sostenuto da Carole King, James Taylor, Quincy Jones, Peter Paul e Mary e Simon & Garfunkel. Nel 1976 fu Jimmy Carter a capire come la musica rock poteva diventare organica a una campagna presidenziale, stringendo una collaborazione con il discografico Phil Walden ai tempi manager della Allman Brothers Band (ne abbiamo parlato su Alias dello scorso 3 ottobre).

Ronald Reagan subentrò al primo presidente rock portando un’ondata di conservatorismo. Tra i suoi sponsor ricomparve un Frank Sinatra che lo appoggiò anche con una donazione di 4 milioni di dollari. Il successore, George Bush Sr., strinse legami con tante star della musica country come Charlie Daniels e Randy Travis. Con Bill Clinton nel 1993 entrava nello Studio Ovale la generazione tra proteste pacifiste e rock. Clinton fu accompagnato nella sua campagna da Don’t stop dei Fleetwood Mac. Al ballo inaugurale della Casa Bianca nel gennaio del 1993, la band, i cui membri si erano all’epoca separati, si riunì appositamente per cantare il brano.

Nel 2000 George W. Bush scelse come suo inno I Won’t Back Down di Tom Petty che però non gradì e fece intervenire gli avvocati. Petty era amico del rivale Al Gore e suonò per luiil giorno in cui il candidato democratico ammise la sconfitta diluendo la delusione con una grande festa. Bush fu isolato da gran parte della comunità rock, ma sostenuto, come il padre, da molti artisti country come Toby Keith e Darryl Worley.

Nel 2004 decine di artisti rock tra cui Bruce Springsteen, Pearl Jam, Michael Stipe, Dixie Chicks, Dave Matthews Band, Bonnie Raitt, John Mellencamp parteciparono al tour «Vote for Change» a sostegno di John Kerry. Le rockstar furono compatte ancora 4 anni dopo per sostenere Barack Obama. I discorsi del candidato divennero una canzone scritta da Will.i.am dei Black Eyed Peas. Il 44esimo presidente festeggerà la sua elezione con un grande concerto con esibizioni di molti artisti che gli avevano concesso l’uso della propria musica durante la campagna tra cui Beyoncé, Bon Jovi, John Legend, John Mellencamp, Springsteen, James Taylor, gli U2 e Stevie Wonder.

Donald Trump non ha avuto molta fortuna con i musicisti. Le uniche rockstar che hanno avuto il coraggio di esprimersi in suo favore sono state Kid Rock e Meat Loaf. Per questa tornata elettorale Joe Biden ha lanciato la sua candidatura sulle note di The Rising di Springsteen che già aveva portato fortuna a Obama. The Donald ha ricevuto più lettere di diffida che adesioni. Ultimamente sta scandendo i suoi comizi sulle note di Y.M.C.A. dei Village People. Chissà se qualcuno gli ha spiegato che il brano, un successo del 1978, è oggi uno dei più riconosciuti inni della comunità gay.